Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

5 - La canzone della Diana

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5 - La canzone della Diana

 

Tutti i cipressi fremono. O Canzone,

squilla! I corvi dall'arco tiburtino

s'alzano andando verso il Teverone.

 

Altrove è l'alba. Un pascolo marino

è l'Agro. L'Urbe è un'isola. Si spande

la più gran luce sopra l'Aventino,

 

verso la Porta d'Ostia, in sette bande.

Nell'ombra del Gianicolo tre vele

rosse rimontan verso Ripa Grande.

 

Sul Mausoleo l'Arcangelo Michele

sfolgora. Ritto sta su l'altra mole

a cavallo il secondo Emanuele.

 

Ninfa perenne dalle mille gole

l'acqua canta le origini del Lazio.

Niuna cosa mai tu veda, o Sole,

 

maggior di Roma! Il numero d'Orazio

a quando a quando par, tra l'Arce e il Fòro,

riecheggiato nel divino spazio.

 

Pieno di nume è l'aere sonoro.

Tronca la quercia un dio sul Celio? taglia

un eroe sul Gianicolo l'alloro?

 

Riarde ai Quattro Vènti la battaglia

sublime? ancóra fumiga il Vascello?

ancóra il sangue bulica e s'accaglia?

 

ancóra ai giovinetti ebri il mantello

bianco del condottiere è l'ala intatta

della Vittoria? il Dandolo l'appello

 

ultimo fa su la scalea scarlatta

ove sopra i cadaveri il cavallo

del gran Masina l'ultima stratta?

 

Irto di furia è il muto piedestallo.

I bersaglieri di Lucian Manara

disperati empion d'animo il metallo.

 

Laggiù, guatano il ciel che si rischiara

dietro il muro di fango, nel palmeto,

i bersaglieri di Gustavo Fara.

 

Laggiù, sotto la cupola che sgretola,

arde l'araba lampada al bivacco

e la vedetta sta sul minareto.

 

Pietro Ari laggiù tra sacco e sacco

spia l'Oasi, con l'occhio a mira certa,

tranquillo masticando il suo tabacco.

 

I mozzi, come fossero in coverta,

stanno alla guardia della batteria

sopra il sabbione; e l'un per gioco «Allerta

 

a prodagrida. E vien dalla Menscìa,

con l'afa dei cadaveri, odor d'erbe

arse nel vento, odore di gaggìa.

 

Poggiato al pezzo il morituro imberbe,

che morderà la sabbia, i denti bianchi

ficca nel pane e nelle frutta acerbe.

 

Odesi il canto dei soldati stanchi

che scavan le trincere nelle tombe

dei Caramanli. Il canto li rinfranchi.

 

S'ode nel cielo un sibilo di frombe.

Passa nel cielo un pallido avvoltoio.

Giulio Gavotti porta le sue bombe.

 

Laggiù, presso la mola d'un frantoio

o presso i tronchi d'un'antica noria

onde pendon consunti e corda e cuoio,

 

sorride un morto all'invisibil gloria.

Il paradiso è all'ombra delle spade

e la delizia è il fior della vittoria.

 

Ulula per i campi senza biade

il duolo delle donne beduine

alterno, ed or s'inalza ed ora cade.

 

All'ombra d'una palma, sul confine

dell'Oasi, una croce rude è fitta

in un tumulo cinto dalle spine.

 

Nome inciso non v'è, non lode inscritta:

altro segno non v'è se non l'eterno.

Sola una nudità vi splende invitta.

 

Un dal tuo più profondo sen materno

escito, Italia, un figlio tuo vi dorme;

che s'ebbe anch'egli forse il pianto alterno

 

nell'isola dove l'ombra enorme

del Passato covar sembra il nuraghe

perché ne sorga un popolo conforme.

 

Non la madre mortal toccò le piaghe,

né le lavò, né le lasciò di bende,

già consunta dall'ansie sue presaghe.

 

Ma tu guardasti le ferite orrende

e componesti il corpo in quel sepolcro.

Sola una invitta nudità vi splende.

 

E la terra fu tua per quel sepolcro,

tutta la terra inclusa tra la Sirte

e il Deserto fu tua per quel sepolcro!

 

Canto l'azzurro e l'oro della Sirte,

l'azzurro che nel grande oro s'insena,

ove non dagli scogli ma dall'irte

 

navi con l'urlo lungo la sirena

lacera l'aria pregna dell'aroma

che inebria i prodi; e bianca su l'arena

 

Tripoli infida cui la guerra schioma

come femmina presa per le trecce

dalle pugna del maschio che la doma.

 

Le sue palme schiantate, le sue brecce

fumide canto; canto i suoi villaggi

rasi che brucian come in luglio secce

 

di Maremma, onde fiutano i selvaggi

poledri il dubbio odore dalle chiatte

ben costrutte e nitriscono ai foraggi

 

salini che pascean lungo le fratte

di tamerici, presso i sepolcreti

sonori dove il mare etrusco batte.

 

O terra di sepolcri e di forteti,

Maremma, canto la tua razza equina,

la ben crinita razza che disseti

 

nel sarcofago tolto alla ruina

di Saturnia o di Volci e che rinfreschi

con un germoglio roscido di brina.

 

Salute, o terra degli Aldobrandeschi!

Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera,

come l'ocra e la robbia ai barbereschi,

 

arrossano finché di primavera

tu non li marchi all'anca e alla ganascia

per arrolarli sotto la bandiera.

 

La chiatta a fondo stagno il mastro d'ascia

chioda, coi sacchi d'aria e con le botti

l'aiuta, con i canapi la fascia.

 

I cavalli s'impennano, condotti

alla gru; cinti dell'imbraca, appesi

al paranco, paventano. Interrotti

 

sibili, canti di fatica ai tesi

canapi, voci di comando, liti

di battellieri, gergo di Maltesi,

 

schianti d'assi e di tavole, nitriti

e scàlpiti nel vento che ridonda,

sudore e schiuma, urti d'abbordo, attriti

 

di ferramenta; e tutta l'aria è bionda

come su Talamone; ed agli approdi

i maremmani giungono con l'onda.

 

Maremma, canto i tuoi cavalli prodi.

Tra sangue e fuoco ecco un galoppo come

un nembo. E la cavalleria di Lodi,

 

la schiera della morte. So il tuo nome,

o buon cavalleggere Mario Sola.

Giovanni Redaelli, so il tuo nome;

 

Agide Ghezzi, e il tuo. «Lodi» s'immola.

E veggo i vostri visi di ventenni

ardere tra l'elmetto e il sottogola

 

o dentro i crini se il caval s'impenni

contra il mucchio. Gandolfo, Landolina,

alla riscossa! Tuona verso Henni.

 

Tuona, da Gargarèsch alla salina

di Mellah, su le dune e le trincere,

su le cubbe, su i fondachi, a ruina,

 

su i pozzi, su le vie carovaniere.

La casa di Giammìl ha una cintura

di fiamma. Appiè, appiè, cavalleggere!

 

Vengono di Taruna e di Tagiura,

vengon di Gariàn e di Misrata;

e dal Deserto un'altra massa oscura

 

s'avanza già sotto la cannonata.

Or biancheggiano al vento i baracani:

s'arrossano se scoppia la granata.

 

Occhio alla mira ferma, o cristiani.

Solo chi sbaglia il colpo è peccatore.

Vi sovvenga! Non uomini ma cani.

 

Per secoli e per secoli d'orrore,

vi sovvenga! Dilaniano i feriti,

sgozzan gli inermi, corrono all'odore

 

dei cadaveri, i corpi seppelliti

dissotterrano, mùtilano i morti,

scempiano i morti. Straziano i feriti,

 

gli inermi, i prigionieri, i nostri morti!

Vi sovvenga. Dovunque è il tradimento,

nelle case, nei fondachi, negli orti,

 

nel verde d'ogni palma, nell'argento

d'ogni olivo, allo svolto d'ogni via.

I marinai lo fiutan sottovento.

 

O Tripoli, città di fellonìa,

tu proverai se Roma abbia calcagna

di bronzo e se il suo giogo ferreo sia.

 

Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna,

Pergolesi, Coralli! Il maschio Fara

vi guarda. Cresce il sangue e mai non stagna.

 

Tutti in piedi. Nessuno si ripara.

Chi cade, si rialza; e poi stramazza.

La spalla del soldato è la sua bara.

 

Immune su la grandine che spazza

l'Oasi atroce, splendido nell'alto

cielo un alato spia. Salute, o Piazza,

 

Mòizo, Gavotti dal tuo lieve spalto

chinato nel pericolo dei vènti

sul nemico che ignora il nuovo assalto!

 

Anche la morte or ha le sue sementi.

La bisogna con una mano sola

tratti, e strappi la molla con i denti.

 

Poi, come il tessitor lancia la spola

o come il frombolier lancia la fromba

(gli attoniti la grande ala sorvola)

 

di su l'ala tu scagli la tua bomba

alla sùbita strage; e par che t'arda

il cuor vivo nel filo della romba.

 

Non guarda il cielo Pietro Ari. Guarda

tra sacco e sacco. Pelle non scarseggia.

Sceglie, tira, non falla. È testa sarda.

 

Non si volta, non gridamotteggia.

Mira e tira. Una palla squarcia un sacco.

Una rimbalza su la canna e scheggia

 

la cassa. Un'altra viene a tiro stracco

e un po' lo pesta. Un'altra vien di schiàncio

e lo strina. Egli morde il suo tabacco.

 

È a testa nuda, testa quadra. A un gancio

pende l'elmetto. Intorno è pien di bòssoli.

Ancor nella gamella è caldo il rancio.

 

Anima, corpo e patria son nel fosso

come in un focolare più capace

che l'arborense. Una man sacra ha smosso

 

col ferro nella cenere la brace

dentro il cerchio dei sassi. Le sorelle

cuciono in sogno il suo gabban d'orbace.

 

Ei dormirà, come le prime stelle

tremino, su la stuoia stesa in terra.

Or è nella mislèa. «Pelle per pelle»

 

dai padri suoi che dormono sotterra

fu comandato. Or contro questi cani

sta con fegato buono a mala guerra.

 

Quante grandùre, quanti baracani

colcò, sotto la grandine che scroscia!

Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani

 

e mai sempre. Una palla nella coscia

gli spezza il taglio della baionetta

cinta al fianco, e nell'osso della coscia

 

il mozzicon del ferro gli s'imbietta

forte così che sola una tanaglia

o la mano del Sardo in una stretta

 

cruda lo possa svellere. Ei travaglia

seduto su lo zàino. Alfin lo svelle.

S'alza nel sangue, e torna alla battaglia.

 

Non torna al focolare? Le sorelle

cuciono in sogno il suo gabban d'orbace.

Or tinto è il panno, e l'opre son più belle.

 

Ancor uno! Ancor uno! Non è pace

ancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza.

Il sangue scorre e l'anima è tenace;

 

ché rugge in piedi tutta la sua razza

ora nel suo coraggio, su quell'osso

scheggiato, e del suo sangue egli la chiazza.

 

Ancor uno! Due tre gli sono addosso,

lo prendono, gli strappano il fucile,

lo forzano, lo traggono dal fosso.

 

Non son que' cani, sono i suoi! Le file

de' suoi vede in ginocchio ai parapetti,

i pacchi di cartucce nel barile;

 

gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti;

ode il tonfo d'un corpo che si piega,

la rabbia che stridisce su gli elmetti.

 

E il taciturno supplica, diniega,

minaccia, si dibatte. Il sangue scorre

per la barella. Ei rugge ancóra, e prega!

 

Verso Messri, un eroe nomato Astorre

ha tolto all'orda lo stendardo verde;

e tutto il fronte alla riscossa accorre.

 

Su, compagnia dello stendardo verde,

Ottava! Su, la Settima, col prode

Orsi! L'inferno di Giammìl si perde.

 

Spinelli, alla riscossa! Ala dell'Ode,

non batti se non come il chiuso cuore.

Chiusa fremi, e il tuo numero non s'ode.

 

Come quella d'Atene, per amore

della mischia, t'allacci i tuoi calzari,

Ode, e ricalchi l'orme del valore.

 

Dal ciglio dei ridotti e dei ripari

sporgi, Gloria più giovine, ed irraggi

gli oscuri eroi pel cor di Pietro Ari.

 

A corpo a corpo! Son tenuti i gaggi

della Corsina e quelli di Marsala.

Su la mischia feroce, su i selvaggi

 

urli, sul mucchio, sul baglior ch'esala

dall'animo scagliato a tutta possa,

subitamente par che passi l'ala

 

di quel mantello e la camicia rossa

rilampeggi e racceso per la duna

il riverbero sia di Gibilrossa.

 

Croce d'argento contro mezzaluna!

Undecimo, con l'ugne riafferri

pe' capegli di dietro la fortuna.

 

Chi balza con lo stuolo irto di ferri

di dalle trincere e dai destini

verso la sua bellezza? È Pietro Verri.

 

«Avanti, marinai, garibaldini

del marePar che su lo scarno viso

l'ardente ombra del Sìrtori s'inclini.

 

Rotta la fronte che fu pura, ucciso

cade. Par che l'alfiere da Camogli

su le spalle si carichi l'ucciso.

 

«Avanti!» Non è tempo di cordogli.

Il pericolo ondeggia. Il tradimento

è dietro i muri, è dietro i tronchi spogli

 

che la grandine schianta; è in tutto il vento

del Deserto e dell'Oasi. La sorte

balena. Alla riscossa! Ei non son cento,

 

e la bandiera sventola. Ora, o Morte,

ei son cinquanta. E la bandiera sventola.

Dov'è Giacomo Medici? Ora, o Morte,

 

non son che dieci. E la bandiera sventola.

 

 

 


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