Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

6 - La canzone d'Elena di Francia

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6 - La canzone d'Elena di Francia

 

Stelle dell'Orsa, Guardie dei piloti,

e voi, Pleiadi, lacrime divine

d'amori eterni e di dolori ignoti;

 

e tu, fra le sorelle oceanine,

che sola amasti un triste eroe mortale,

e ti celi il tuo vólto nel tuo crine,

 

o Merope d'Atlante, mia navale

Musa; e tu, Vega, e tu, bacca di luce,

Perla della corona boreale;

 

o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce,

Càstore, plenitudine di spirti

che la corusca melodìa conduce;

 

Notte, e Galàssia effusa per crinirti,

Nube, e il dio che ti lacera, scorgete

la bianca nave uscente dalle Sirti!

 

Sul guerreggiato mare alta quiete

regna. Il silenzio del Risorto incombe,

come quando Simon gittò la rete.

 

Quasi un dolce candore di colombe

illumina la tolda della nave

che reca i morti alle materne tombe.

 

E su l'assi che chiudono il cadavere

e sul letto ove sanguina il ferito

arde una sola santità soave.

 

La figura di prua non è scolpito

legno ma un sovrumano Essere intento,

con un sorriso eguale all'Infinito.

 

E quegli ch'ebbe stritolato il mento

dalla mitraglia e rotta la ganascia,

e su la branda sta sanguinolento

 

e taciturno, e i neri grumi biascia,

anch'egli ha l'indicibile sorriso

all'orlo della benda che lo fascia,

 

quando un pio viso di sorella, un viso

d'oro si china verso la sua guancia,

un viso d'oro come il Fiordaliso.

 

Sii benedetta, o Elena di Francia,

nel mar nostro che vide San Luigi

armato della croce e della lancia

 

fare il passaggio coi baroni ligi

su le navi di Genova e prostrato

sotto i suoi gigli attendere i prodigi,

 

sii benedetta; ché ritorna il fato

d'amore all'acque istesse e in te rigiura

il santo Re di lacrime beato.

 

Ti sovviene dei morti di Mansura

che putivan nel limo, su le rive

del Nilo, ignudi, senza sepoltura,

 

mentre per tutta l'oste le malvive

genti ululavan come donne in parto

di tra il marciume delle lor gengive,

 

e i feriti, colcati su lo sparto

come buoi, la Cappella e il suo Tesoro

deprecavano in van pel sangue sparto

 

e lungi travedean dal lor martoro

splendere, dietro la criniera ardente

di fuoco greco, la celata d'oro,

 

la gran spada alemanna ben tagliente,

e udian sonar la prece su la zuffa:

«Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!».

 

Allora il Re levavasi la buffa

dal viso smunto; e, sceso degli arcioni,

sfangava solo per l'orribil muffa.

 

Per quel carnaio givasi carponi

piangendo, a riconoscere i suoi cari

morti, i suoi fanti come i suoi baroni.

 

E i Vescovi, che in campo dagli altari

assolvevano l'anime, al divino

officio si turavano le nari.

 

Ma il Re, toltosi l'elmo e il gorzerino,

portava i corpi in su le braccia e in dosso

quand'altri li traeva per l'uncino.

 

E con quella pia man che avea riscosso

Carlo d'Angiò di sotto il fuoco greco

(in arme d'oro sul cavallo rosso

 

che ardea per la criniera, ei fatto cieco

e invitto dal suo Dio corse a traverso

l'inferno avendo un grande Angelo seco)

 

con quella mano l'ulcero perverso

medicava, tagliava intorno ai denti

la carne enfiata, ungeva il taglio asterso.

 

Pane afflitto partia con le sue genti

nelle fami. Parlava col lebbroso.

Portava invidia agli uomini piangenti.

 

«Bel sire Iddio, richieder non son oso

fonte di pianto. Alcuna stilla basta

all'alidore del mio cor penoso

 

Le lacrime colando per la casta

bocca, ei gustava nell'amaro sale

la dolcezza che ad ogni altra sovrasta.

 

Ma non tu piangi, o Amàzone regale.

Una intrepida forza t'azzurreggia

negli occhi, sotto il lino monacale,

 

se il braccio lacerato dalla scheggia

sostieni o la man tronca fasci o bagni

le labbra al sitibondo che vaneggia.

 

Non lacrime, non gemiti, non lagni.

Quegli che vinse fuor della trincera,

vuol col silenzio vincere i compagni.

 

E quegli che di vivere non spera

già fiammeggiar nel gelido lenzuolo

sente i tre ferzi della sua bandiera.

 

Qual novo giorno splenderà sul molo

popoloso, laggiù? La Patria è tutta

pallida, in piedi, con un vólto solo.

 

Pallida, in piedi, con la gota asciutta,

serra nel petto i nomi de' suoi morti.

Guarda lontano. E il mar non li ributta.

 

Quale mistico approdo è atteso? I porti

sono solenni come cattedrali.

Donna di Francia, or sai quel che tu porti.

 

Tu porti con la nave i sogni e l'ali

e le rose future e il novo canto

in quel cumulo d'anime e di mali.

 

L'angioino vascello non più santo

era allorché recava il grande spoglio

del Re che volse in cenere il suo manto.

 

Ben ti sovviene. Il fùnebre convoglio

venìa così pel Mar siciliano

con l'oste e col navile in gran cordoglio.

 

E il Re col suo soave Gian Tristano

stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto

in Fiorenza, il cordiglio francescano

 

nell'una man tenea forse e di sotto

al drappo azzurro e al vaio e a' fiordiligi

avea su l'ossa il càmice incorrotto.

 

Era lontano in Santo Dionigi

il sepolcro, guardata dalla morte

la via lunga di Trapani a Parigi.

 

Re Tibaldo morivasi alle porte

dell'Invitta, Isabella d'Aragona

sentiva già l'orrore della sorte

 

imboscata ne' monti ove risuona

giù per la costa calabra il maligno

guado che lei travolse e la corona.

 

E il Nasuto, il carnefice ulivigno

de' biondi Svevi, in terra di baldoria

gli usci franceschi tinti di sanguigno

 

non si sognava già, né la sua boria

vedeva il lunedì di Risurresso

e le galere di Rugger di Loria,

 

quand'ebbe offerto in pegno di possesso

eterno a Monreale il Cor beato

e in Palermo il Lambello ebbe rimpresso.

 

Ora a Palermo per divino fato

il Fiordaliso ed il Lambel vermiglio

raddotto hai tu, non in vessillo issato,

 

o Elena di Francia, ma in naviglio

ricrociato d'amore e di dolore

ove tu splendi come il più gran giglio.

 

«Così è germinato questo fiore

par sorrida colui che su la roccia

del sacro balzo, ove l'umano errore

 

si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia

suo seme ha visto tutto vòlto in giuso

fonder per gli occhi il male a goccia a goccia.

 

«Nuova luce percote il viso chiuso»

dice la Voce. E dice: «Qui si monta».

Ed ovunque il suo spirito è diffuso.

 

La sua forza gentile austera e pronta

è la tempra dell'aria. O Italia bella,

or sei fissa al tuo Sol che non tramonta.

 

O dolce Francia, o unica sorella,

per la muta speranza che s'inclina

su le chiare acque della tua Mosella,

 

per la memoria pia di Valentina

che, fedele al suo lutto, patir volle

senza tregua nel cor l'acuta spina,

 

pei campi onde l'allodola tua folle

balza chiamando, e i pioppi della Mosa

fremono, e il sangue grida nelle zolle,

 

Francia, ricevi e serba la gioiosa

promessa che ti fa, d'una vendetta

più grande, questa carne sanguinosa.

 

Taglia per noi con la tua vecchia accetta

un ramo della quercia di Lorena,

sul colle ove Giovanna è alla vedetta,

 

intreccia al ramo rude la verbena

già sacra ai nostri padri, ed a noi manda.

Su le Statue velate il ciel balena.

 

Balena anche per noi da quella banda.

Sul Campidoglio senza Feziali

sospenderemo noi la tua ghirlanda.

 

E tu òccupa il ciel con le tue ali,

guerriera alata. Noi le navi forti

spingeremo nel mar dai nostri scali.

 

O Elena, che in fronte ai nostri morti

impressa vedi la virtù di Roma,

pel gran patto latino oggi tu porti

 

la verbena augurale entro la chioma.

 

 

 


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