Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

7 - La canzone dei Dardanelli

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7 - La canzone dei Dardanelli

 

Taranto, sol per àncore ed ormeggi

assicurar nel ben difeso specchio,

di tanta fresca porpora rosseggi?

 

A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio

muro che sa Bisanzio ed Aragona,

che sa Svevia ed Angiò, tendi l'orecchio?

 

Non balena sul Mar Grandetuona.

Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte

gira, e del ferro il tuo Canal rintrona.

 

Passan così le belle navi pronte,

per entrar nella darsena sicura,

volta la poppa al ionico orizzonte.

 

Sembran sazie di corsa e di presura,

mentre nel Mar di Marmara e nel Corno

d'oro imbozzate l'ansia e la paura

 

sognano fumi al Tènedo ogni giorno

apparsi e invocan l'altro Macometto

che scenda in acqua col cavallo storno

 

come quando alla Blanca un vascelletto

greco e tre saettìe di Genovesi

con lor pietre manesche e fuochi a getto,

 

conficcate le prue sino ai provesi,

nell'arrembaggio, presero battaglia

contra il soldano e i suoi visiri obesi

 

e contra una ciurmaglia e soldataglia

innumerabile in dugento buoni

legni; e vinsero; e con la vettovaglia

 

sotto Costantinopoli, tra suoni

e cantici, a rimurchio in salvamento

li ricondusse Zaccaria Grioni.

 

Eran tre saettìe contra dugento

sàiche fuste e galèe! Taranto, Alfieri

d'Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento

 

su la duna a Bengasi ove tu eri

mista al suo sangue allor che cadde eletto

dalla gloria tra i bianchi cannonieri,

 

ben si mostrò di quella tempra; e il petto,

come quando le navi avean di legno

il fasciame, fu ben di ferro schietto.

 

Ma non pur anco il giovincello Regno,

fior di modestia, escito è di tutela.

I pedagoghi suoi stanno a convegno.

 

Adoprano con trepida cautela

la bilancia dell'orafo in pesare

il buon consiglio; e, se il timor trapela,

 

appoggiandosi al muro famigliare

stranutano e tossiscono. O Senato

veneto! O prisca Libertà del Mare!

 

Il sobrio Talassòcrate dentato,

il pudico pastor dai cinque pasti

che si monda con l'acqua di Pilato,

 

immemore dei fasti e dei nefasti

suoi vermigli, cigola e s'indigna

a tanto scempio, e torce gli occhi casti!

 

E quei che verso il Reno ora digrigna

ed or sorride livido di bile

col ceffo nella sua birra sanguigna,

 

l'invasor che sconobbe ogni gentile

virtù, l'atroce lanzo che percosse

vecchi e donne col calcio del fucile,

 

il saccardo che mai non si commosse

al dolore dei vinti e lordò tutto

del fango appreso alle sue suola grosse,

 

l'Ussero della Morte vela a lutto

Stinchi e Teschio per la pietà fraterna

di tanto musulman fiore distrutto!

 

Ma uno più d'ogni altro si costerna.

Egli è l'angelicato impiccatore,

l'Angelo della forca sempiterna.

 

Mantova fosca, spalti di Belfiore,

fosse di Lombardia, curva Trieste,

si vide mai miracolo maggiore?

 

La schifiltà dell'Aquila a due teste,

che rivomisce, come l'avvoltoio,

le carni dei cadaveri indigeste!

 

Altro portento. Il canapo scorsoio

che si muta in cordiglio intemerato

a cingere il carnefice squarquoio

 

mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiato

da quella mozza man piena d'anelli

che insanguinò la tasca del Croato!

 

Son questi i cristianissimi fratelli

del protettor d'Armenia, ond'è rifatta

pia la verginità dei Dardanelli.

 

La vecchia Europa avara e mentecatta

che lasciò solo il triste Costantino,

solo a cavallo nella sua disfatta

 

ultimo imperatore bisantino

combattere alla Porta Carsia e spento

dar la porpora e l'aquile al bottino,

 

dessa or soccorre del suo pio fomento

lo smisurato canchero che pute

tra Mar Ionio e Propontide nel vento.

 

Oh Alleanza mistica, salute!

Cantar voglio le tre sotto il posticcio

turbante auguste Podestà chercute

 

e d'austriaco sevo unto il molliccio

soldan che ascolta il suo martirologio

col bianco pelo irto per raccapriccio.

 

Alla Consulta attendono l'elogio

tutorio i pedagoghi del pupillo

demente; e spiano il tempo ch'è balogio

 

su la piazza ove ride lo zampillo

romano tra gli equestri Eroi gemelli

palpitando qual limpido vessillo.

 

Come sul fulvo mare dei camelli

sta la Sfinge, una intorta Pitonessa

senza tripode guarda i Dardanelli.

 

La licenza è concessa e non concessa,

se guarentita sia la libertà

al sapone di Caffa e al gran d'Odessa.

 

Ahi cieca ambage! Ed ei non sono già

discepoli di Mosca de' Lamberti

che disse: «Cosa fatta capo ha».

 

Vanno librando i pesatori esperti

la bilancia dell'orafovana

con once dramme scrupoli malcerti.

 

Meglio rozza stadera di dogana

ove per dar tracollo il ferreo Cagni

gitti la spada di Bu-Meliana.

 

La nave, col desìo che il sangue bagni

le torri e il ponte per ribattezzarsi,

richiama a sé gli intrepidi compagni

 

che troppo a lungo per le dune sparsi

e nelle fosse tennero la guerra

dediti a superare e a superarsi

 

come quando l'eroe, che di sotterra

ancor gli incìta, disse oltre la morte:

«Io con mille di voi prendo la terra».

 

Stefano Testa, l'òmero tuo forte

è rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio;

o Montella, e il tuo femore. E la sorte,

o Gaudino, t'amò quando un vermiglio

fiore ti pose presso il cor tra costa

e costa. E tu, Vito de Tullio, figlio

 

di Bari vecchia ove una santa esposta

al popolo si chiama Serafina,

e il popol tutto innanzi a lei fa sosta;

 

o Carmineo, di un'umile eroina

anche tu primo nato tra il Leone

di San Marco e la Chiesa palatina;

 

o fratel mio d'Abruzzo, e tu, Marone,

che in sogno ancor la piaga del tuo piede

strascichi per servire il tuo cannone;

 

voi tutti, ardenti della vostra fede

e della vostra febbre nella lunga

corsìa triste, con l'anima che crede

 

e vede or ascoltate se non giunga

un grande annunzio, sussultando al cupo

urlo che nella notte si prolunga.

 

Dante de Lutti forse in un dirupo

giace coi prodi a Derna, e la vendetta

ride ne' denti suoi di giovin lupo

 

come quando a Tobrucca su la vetta

della ruina issava il tricolore,

più agile che mozzo alla veletta.

 

E la notte par piena di clamore.

E la corsìa d'occhi sbarrati e fissi

riarde, e ucciso è il sonno dall'orrore.

 

Taluno i suoi compagni crocifissi

rivede, , nella moschea di Giuma,

i corpi come ciocchi aperti e scissi

 

con la scure, conversi in nera gruma

senza forma, sgorgando le ventraie

per gli squarci; e le bocche ove la schiuma

 

dell'agonia tersero l'anguinaie

recise, intruse fra le due mascelle;

e i viventi infunati alle steccaie,

 

alle travi dei pozzi, con la pelle

del petto per grembiul rosso, con trite

le braccia penzolanti dalle ascelle

 

dirotte, con le pàlpebre cucite

ad ago e spago, o fitti sino al collo

nel sabbione che fascia le ferite,

 

le vene stagna. Odio, che sei midollo

della vendetta e lièvito del sangue,

ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo.

 

Talun disse: «Spargete poco sangue.

Deh non vogliate esser micidiali!

Quasi pace è la guerra, quando langue».

 

O dolci eroi sognanti su i guanciali

penosi, udiste l'ordine di guerra?

«Le navi scorreranno gli ospedali

 

I marinai combatteranno a terra

Sognando, andiamo incontro all'Ombre sole

mentre il ponte di Taranto si serra.

 

La notte sembra viva d'una prole

terribile. La grande Orsa declina.

Infaticabilmente il mar si duole.

 

Un vento di dominio e di rapina

squassa il vasto Arcipelago schienuto.

Chi vien da Scio con la galèa latina?

 

Chi da Nasso? e d'Amorgo? Ti saluto,

a capo del naviglio tuo di corsa,

o duca dell'Egeo Marco Sanuto.

 

Sul tuo coppo di ferro splende l'Orsa.

Dietro i pavesi sta la compagnia

pronta allo sforzo: la minaccia è corsa.

 

Eri una via calpesta, eri la via

dei Barbari che andavano alla guerra

in Occidente, allora, o Austria pia.

 

E l'onta di Giovanni Senzaterra

stava su te, la crudeltà del basso

vassallo d'Innocenzo, o Inghilterra,

 

quando al libero Doge dava il passo

l'Imperatore sul diviso Impero,

e la Morea dal Tènaro a Patrasso

 

e Salamina con il suo cimiero

di gloria non immemore d'Aiace,

e il Sunio col suo tempio roso e il nero

 

Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace,

le Cicladi fulgenti, tutto il lido

curvo dal Mar dalmatico al Mar trace

 

erano un sol dominio sotto il grido

di San Marco; e Gallipoli, Eraclea,

Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido

 

il Doge tutto l'Ellesponto avea;

quasi mezza Bisanzio, e gli arsenali

quivi, e le darsene e le ròcche aveano

 

i Veneti; lanciavan dagli scali

nel Corno d'oro le galèe costrutte,

al Leone ogni crescendo l'ali.

 

Ecco, o Mediterraneo, su tutte

l'isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiaro

col mio cuore le impronte non distrutte.

 

Ecco un Sagredo principe di Paro,

a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo,

a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.

 

Presso Blacherne publica il suo bando

Ranieri Zeno, e quasi Imperatore

ha tutta Romania nel suo comando.

 

Il genovese Enrico Pescatore

conte di Malta usurpa il fio di Creta.

In regia potestà l'Asia Minore

 

ha Martin Zaccaria, batte moneta,

leva milizie e navi, si travaglia

a Focea per allume, a Chio per seta,

 

a traffico imperversa e a rappresaglia,

stermina Catalani e Musulmani,

tutt'armato da re muore in battaglia.

 

O dura schiatta dei Giustiniani,

nova sovranità della Maona

libera, dinastia di popolani

 

magnifici, di re senza corona,

che profuman di mastice la bianca

scìa o la segnan d'una rossa zona,

 

quando nell'isola Andriolo Banca

orna templi, deduce carmi, venera

Omero, èduca lauri, schiavi affranca!

 

Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene

da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia,

l'Ombre cantano come le sirene.

 

Un Querini è signore di Stampàlia,

di Nanfio un Foscolo, un Navigaioso

di Lemno. Ecco l'Egeo, navi d'Italia,

 

ecco il mare operoso e sanguinoso

di noi, le rive con le nostre impronte,

le mura impresse del Leon corroso.

 

Un Barozzi è signore a Negroponte,

un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio.

Navarca è un Longo ed un Adorno è arconte.

 

Fendo i secoli, lacero l'oblìo,

ritrovo le correnti della gloria

nell'acqua ove portammo il nostro Dio.

 

Levo sul mar l'onda della memoria

e col soffio dell'anima la incalzo,

che ferva sotto il piè della Vittoria,

 

che schiumi e fumi sotto il piede scalzo

volante in sommo come quando accorse

precipitosa dal marmoreo balzo

 

a te, Cànari. O Grecia, o Grecia, forse

anche i tuoi fari pendono. E lo scotto

sarà pagato. Chiedi l'ora all'Orse

 

come l'uomo d'Ipsara e l'Hydriotto

quando muti ridean nel cuor selvaggio,

acquattato ciascun nel suo brulotto,

 

con alla mano i raffii d'arrembaggio,

con alle coste il demone del fuoco,

messo fra i denti il fegato per gaggio.

 

Anche nel nostro cuore arde quel fuoco,

sorella. Vien d'Ipsara Costantino

Cànari, arsiccio, ancor più pronto al gioco.

 

Andrea Miàuli vien sul brigantino

ch'ebbe a Patrasso a Spezzia ed a Modóne.

Ma chi è mai quel grande suo vicino?

 

Riconosco la chioma del leone

e l'affilato viso dell'audacia

e l'occhio inesorabile. O Canzone,

 

piègati sotto l'ala acuta e bacia

per tutti i marinai la fronte fessa

del Capitan che vien dal mar di Tracia.

 

Viene dai Dardanelli su la stessa

galèa cui non restò se non l'orrore

dell'annerito arsile, su la stessa

 

galèa che vide volgere le prore

e orzare a terra Mehemet codardo,

viene dai Dardanelli il vincitore

 

Lazaro Mocenigo. E lo stendardo

del calcese, che gli spezzò con l'asta

il cranio, or croscia al maestral gagliardo

 

su l'erto capo cinto della vasta

piaga, su la criniera leonina

che per corona nautica gli basta.

 

Chiuso è il destr'occhio che nella marina

di Scio barattò egli contro vénti

navi di Kenaàn tratte a rapina.

 

Ma il freddo astro di tutti gli ardimenti

è l'occhio manco, specchio dei perigli.

Lazaro Mocenigo ha le sue genti?

 

Guardalo, Cagni, tu che gli somigli.

 

 

 


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