Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

9 - La canzone di Mario Bianco

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9 - La canzone di Mario Bianco

 

Giovine, so che vuota è la tua tomba

nella cerchia ove le primavere

della morte una candida colomba

 

reca, Medea nata del Condottiere

di bronzo, quella che i suoi rosei marmi

disfoglia come rose di verziere.

 

Bergamo t'ebbe. Ma colui che parmi

ti sorridesse come ad un fanciullo

gentile, non l'adunco irto nell'armi

 

Colleoni, sì ben Francesco Nullo

era, la buona lancia, il grande e fermo

alfier di Libertà, col viso brullo

 

ancóra delle fiamme di Palermo,

rotto dal piombo slavo il vasto petto

offerto alla Giustizia ultimo schermo.

 

Risorrideva nel virile aspetto

il primo sogno che per il selvaggio

Agro trasse il lanciere giovinetto

 

quando la giovinezza era l'ostaggio

d'ogni patto segnato col Destino

ed ogni giorno era calendimaggio?

 

Dov'egli cadde, cavalier latino

in terra strana, ivi restò. La spoglia

dell'eroe sola è mèta al suo cammino.

 

Tu fosti tolto, su la nave in doglia

alla Patria raddotto e alla soave

madre che t'attendea su la sua soglia.

 

Tinta in minio la prora della nave

non era, né corona avea d'oliva

né la mannella delle spiche flave;

 

né sopra v'era teoria votiva

che il virginal tuo sangue, libamento

di guerra, offrisse alla divina riva.

 

Ma la mistica voce era nel vento,

ma sparso era il libame. «È questo, Italia,

è questo il tuo fermento e il tuo cemento

 

E non era solenne la paràlia

a Delo come il funebre vascello

che radduceva il Giovine d'Italia.

 

Ed all'approdo ognun t'era fratello

sentendo in sé l'immobile tuo cuore

ripalpitare come un cuor novello.

 

E dal silenzio fùnebre un dolore

nascea possente come la radice

della virtù. Quest'inno era il suo fiore.

 

E la morte era quasi Beatrice

che ci purificasse in una santa

onda per trarci a un regno più felice.

 

E tu non una giovinezza infranta

eri, ma la promessa e il pegno. Aroma

era del cuor la lacrima non pianta.

 

E passasti i deserti ove arde Roma

or d'altra febbre, e lungo il mar toscano

le salse macchie che il libeccio schioma.

 

Oh t'avessero almen per il Gargano

procelloso raddotto al bel nativo

colle scisso dal vomere frentano,

 

al chiaro colle onde il palladio ulivo

guarda il gregge dell'isole nomate

dal nome del guerreggiatore argivo

 

e i nostri monti quinci, le nevate

imagini dei nostri alti custodi,

e il grande Sprone, e il cerulo Nicate!

 

Detto io t'avrei: «Buon figlio, se non odi

qui fragor di battaglia né ti sazia

l'effuso dopo te sangue di prodi,

 

ben odi qui, sepolto nella grazia

di San Giovanni, le tue querci cave

vaticinare al vento di Dalmazia».

 

Ma tu rivalicato hai senza nave

il mar d'Africa. Vuota è la tua tomba

che t'infiora la madre tua soave.

 

Per Santa Barbara, alla prima romba

del mortaio, già vigile tu eri;

e Gian Muzzo sonava la sua tromba.

 

Ed eran teco i primi cannonieri

della morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi;

e tutti eran più bianchi e più leggeri.

 

E parea che la gran Vergine accesi

avesse i fuochi dell'aurora eterna

alla festa e spiegato i suoi pavesi.

 

Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna

la festa del mortaio e del cannone,

per Santa Barbara, in vicenda alterna.

 

Senza pausa correva la canzone

dall'una gola nera all'altra rossa:

rugghio d'incendii le tenea bordone.

 

L'odor divino della terra smossa,

fra tanta afa, lo spirto della terra

uomo e pezzo allenava nella fossa.

 

Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,

dèmoni della vampa e del fragore,

àlacri sinfoneti della guerra!

 

Tutte le batterie un solo ardore.

Tutte le volontà un nervo istesso.

La massa era contratta come un cuore;

 

la fila era flessibile qual nesso

di tèndini. Fin l'ombra su l'arena

tra l'uomo alzato e l'uomo genuflesso

 

era un legame vivo. La catena

unanime giocava agile e dura

come i nodi nell'osso della schiena.

 

Ove il ferro faceva una radura

i superstiti in sùbito retaggio

raccoglievan la forza moritura.

 

I morti si drizzavan nel coraggio

moltiplicato dei viventi. L'aria

era come un ignito beveraggio.

 

Roma apparìa. L'anima legionaria

col vasto afflato dilatava i petti.

Nel cielo spaziava l'ala icaria.

 

Oh date gli asfodeli violetti

d'Aïn-Zara, per tesser le ghirlande

della gloria primiera ai primi eletti,

 

ch'io li mesca ai narcissi della grande

Berenice, ai nettunii gigli nati

su l'orlo delle sabbie memorande

 

ove tinse gli affusti trascinati

a braccia il primo sangue virginale

in libamento della Patria ai Fati.

 

Guardiamarina, cippo sepolcrale

in Tobrucca ti sia l'un dei cannoni

ammutoliti, tolti nel campale

 

giorno di Santa Barbara ai ciglioni

d'Aïn-Zara che videro i fuggenti.

Gli altri sei diamo agli altri sei leoni

 

Ché dove noi poniamo i fondamenti

della potenza, poniam de' nostri

morti l'ossa per consacrar gli eventi.

 

Non nelle antiche ombre, ne' lunghi chiostri

dei cimiteri, tra gli usati avelli,

dove profusa la pietà si prostri;

 

ma novel tumulo ad eroi novelli

diamo, oltremare, su la quarta sponda;

e ciascun nome in pietra si scarpelli;

 

e sien pietre angolari che profonda-

mente radichi in terra ad opra forte

il costruttore, il saldo eroe che fonda.

 

O Tobrucca, alte mura e ferree porte

avrai, cantieri, maestranze, scali,

darsene, e i novi ingegni della morte.

 

E strapperemo alla Vittoria l'ali

perché mai dall'acropoli munita

si fugga. Avrem col Mare altri sponsali.

 

Una maschia bellezza redimita

di sogni avremo, senza il sacerdote,

in mezzo a noi, nel mezzo della vita.

 

Ché l'Africa non è se non la cote

ove affilammo il ferro, per l'acquisto

supremo, contra le fortune ignote;

 

e riluce per noi nell'intravisto

futuro un bene che per rivelarsi

vale il martirio d'un novello Cristo.

 

O Giovine, se mai nel cor t'apparsi

creato dalla pagina commossa

e del gran fuoco mio l'anima t'arsi,

 

odimi, qual ti vedo su la fossa

della trincera mentre ancor spirante

bevi l'odore della terra smossa,

 

odimi. Non morrai. Sei nell'istante

e nell'eternità. Colui che viene

e non colui che parte sei, distante

 

e prossimo. Tu grondi, e le tue vene

sono inesauste. Impallidisci, e il viso

tuo raggia e le tue mani sono piene

 

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso

è inestinguibile. In grande ombra veli

la tua certezza, e pure io ti ravviso.

 

Io fui qual sei, nel mondo. Quel che aneli

anelai. Vissi come tu combatti.

Nutrii di sangue i sogni miei fedeli,

 

d'aspro sangue, per trasmutarli in atti.

Solo, per simulacro della guerra

posi a me, tenni a me tremendi patti.

 

Tutto che in sé l'insonne anima serra

perverte esalta io lo conobbi. E pure

talor fui pari a un fiume della terra!

 

Ma gli anni d'onta, ma le cose impure

pesavano su me. La mandra abietta

si voltolava nelle sue lordure.

 

A me dissi: «Ricòrdati ed aspetta.

Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte.

La gloria fu. Ricòrdati ed aspetta».

 

Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte,

il Signore aspettato, alto volando,

come la verità, sopra la morte.

 

Ecco, vedi, obbedisco al suo comando

e tremo. Vedi, sono ebro d'amore

e di spavento. Or ei dice: «Chi mando,

 

o gridatore ed indovinatore

di cose sante? Chi andrà per noi?».

«Eccomi» dico «manda me, Signore.

 

Con qual segno?» Col segno degli eroi

Egli ha moltiplicata la mia gente,

accesa la virtù degli occhi tuoi.

 

Ah perché, mentre tutto è rinascente

in una primavera più gioiosa

che quella delle Esperidi, e il presente

 

è tessuto di porpora famosa

e di stami indicibili, e la vita

nella pietra di Pallade corrosa

 

riscolpisce l'imagine compita

della divinità novella, e ignoto

nume è il soffio che t'agita e t'incìta,

 

ah perché non rinasco dal mio loto

Principe della Gioventù traendo

i miei compagni a me duce e piloto,

 

meco giurati a un patto più tremendo,

e, per guidarli, d'un più alto e puro

fuoco in me stesso non mi riaccendo?

 

O Giovine d'Italia, il morituro

ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,

declina sopra i mari del Futuro.

 

Tu sorgi. Non morrai. Sei nell'istante

e nell'eternità. Colui che viene

e non colui che parte sei, distante

 

e prossimo. Tu grondi, e le tue vene

sono inesauste. Impallidisci, e il viso

tuo raggia e le tue mani sono piene

 

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso

è inestinguibile. In grande ombra veli

la tua certezza, e pure io ti ravviso.

 

Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli,

gloria nei mari, gloria su la terra!

Combatti e canta come il pio Mameli;

 

semina e mieti; i varchi tuoi disserra;

assoda e guarda le tue vie; con pugno

intrepido le tue fortune afferra;

 

e sappi come traggo il miel del bugno,

l'acqua del fonte, della piaga il dardo;

e vedi come il mio dolore espugno.

 

Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo

abbracciato il dominio, su la vetta

vertiginosa infisso il tuo stendardo,

 

offerto al Sole l'ultima saetta,

alfine avrò da te forse il selvaggio

inno che il paziente orgoglio aspetta,

 

l'inno alla mia vigilia e al mio coraggio.

 

 

 


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