Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUARTO - MEROPE

10 - L'ultima canzone

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10 - L'ultima canzone

 

Ah, non dieci canzoni, dieci navi

d'acciaio martellate con l'istessa

forza d'amore, o Patria, dimandavi,

 

e non sillaba a sillaba commessa

ma piastra a piastra ancor calda del maglio

e in ciascuna impernata una promessa,

 

e già pronte su gli unti scali, al taglio

delle trinche, le dieci in armamento

com'è già pronto il tuo Contrammiraglio.

 

Ahimè, non ho se non il mio tormento

e il mio canto. L'oblìo breve è finito,

e nell'oscuro cuore io mi sgomento;

 

ché oggi sono simile al ferito

lontano che si sveglia al limitare

del gran Deserto e vede l'infinito

 

silenzio sul suo sangue palpitare

di stelle e in lui remoto come il cielo

il vólto delle sue cose più care

 

e tutta la sua vita senza velo,

quasi nel vetro della notte inscritta,

e l'anima chiarita nel suo gelo

 

come una gemma rigida ed invitta

che più non muta forma né s'arrende,

e la vittoria pari alla sconfitta.

 

Non apprese negli anni ciò che apprende

nell'attimo. S'irraggia mentre agghiada.

E la notte lo fascia di sue bende.

 

E nel cavo degli occhi ha la rugiada,

non le lacrime, e qualche gran d'arena

nella man che non stringe più la spada.

 

Tutto è tacito e puro. Non balena,

non albeggia. In un sol chiarore eguale

spazia la solitudine serena.

 

Scende dal cielo e dalla terra sale

la stessa luce: tal nel cielo Sirio

qual nella piaga l'anima immortale.

 

Mi risveglio io così, dopo il delirio

dell'improvvisa primavera, solo

con la mia vita, ahimè, senza martirio

 

cruento, nella notte del mio duolo

antico e nel silenzio delle stelle

infauste, inerte su lo stranio suolo.

 

E nelle vene che parean novelle

m'incresce il vano sangue non versato

e la febbre che aggrava il polso imbelle.

 

O mie canzoni, di qual grande affiato

piene sembraste nella prima ressa

quando ogni mio pensier balzava armato!

 

A ciascuna di voi con indefessa

vigilia diedi vólto d'eroina,

d'aquila penne, ugne di leonessa.

 

travagliosa era la mia fucina,

era l'angoscia dell'amorforte,

che più non mi dolea nel cuor la spina

 

né più da sera battere alle porte

udivo il mio carnefice sagace

che de' miei sonni fa torbida morte,

 

ma sol ruggire udivo la fornace

imperterrita, e come alla battaglia

era la fronte all'opera pugnace,

 

e vedevo di dalla muraglia

la notte costellata d'occhi ardenti,

d'occhi fraterni. «Su, fuoco, travaglia!

 

Gloria, fiammeggia! Su, cantór di genti,

con la Vittoria a gara!» E le sorelle,

ancor rosse, partivano nei vènti

 

quando trascoloravano le stelle

sul disperato Ocèano, il selvaggio

stridendo annunciatore di procelle

 

per la deserta landa; e al gran viaggio

l'anima tutta era seguace, e sola

teneva l'ombra il pallido rivaggio.

 

O lontananza, che dalla parola

eri abolita come inane cura,

or sembri nella notte di viola

 

spanderti senza fine, di pianura

in pianura, di monte in monte, d'acque

in acque. Il mio dolor non ti misura.

 

L'ululo dell'Ocèano si tacque,

il vento cadde. Dal silenzio strano

il notturno carnefice rinacque.

 

Nessun m'ode. Son simile al lontano

ferito che si sveglia al limitare

del gran Deserto e vede il ciel lontano

 

sul suo gelo supino palpitare

di stelle e ascolta sempre più remoto

il pianto delle sue cose più care.

 

Non ti cantai, o mio fratello ignoto?

non chiesi il nome tuo perché nel mio

canto risuoni? Solo sei, devoto

 

a morte, già fasciato dall'oblìo

perenne, profondato nello stagno

del sangue; e non avrai tomba. Foss'io

 

per te come colui che accorre al lagno

del caduto, dove più tremenda

è la strage, e si carica il compagno

 

su l'òmero a scamparlo dall'orrenda

vendetta del mutilatore e arriva

nell'altra vita all'orlo della tenda!

 

Sembrami, ignoto, ch'io ti sopravviva

per un castigo oscuro e ch'io, non ombra

uomo, in vano erri per questa riva.

 

Il vento cadde. Nella notte ingombra

di neri crini è il soffio di Medusa.

A quando a quando il mio cavallo aombra,

 

sosta, soffia, ricalcitra, ricusa

come se non dai tronchi morti fosse

la valle tra le dune alte preclusa

 

ma da mucchio d'uccisi e l'orme rosse

nella bassura dessero bagliore.

Talvolta il passo nelle sabbie smosse

 

è come un tonfo sordo. Il tetro odore

che lascia la marea su le scoperte

spiagge de' naufraghi è come l'odore

 

della putredine. Il bacino è inerte

come l'Averno, sparso d'errabonde

fiamme che or sì or no schiarano incerte

 

larve dentro le barche o per le sponde,

e pare che ogni fiamma s'incolonni

nell'abisso. Ora tutto si confonde

 

e m'illude. Latrare i cani insonni,

presso e lontano, odo per la malvagia

landa. Ascolto. Son forse quei di Fonni?

 

Sono i mastini della mia Barbagia?

È la muta di guerra? A paio a paio

ardere vedo i loro occhi di bragia.

 

Marceddu è in vermi. Murtula è più gaio:

non ha che l'ossa del viso disfatte.

Il buon Demurtas medica il carnaio.

 

Azzanna! Azzanna! Dove si combatte?

Muta di guerra, trovami la pesta

nel sabbione, pe' rovi e per le fratte.

 

Ma non latrare, ché stanotte è gesta

di silenzio, vittoria senza grida,

gloria tacita. Il cuore me l'attesta.

 

Razza del Monte Spada, siimi guida,

innanzi al mio cavallo che paventa.

Io cerco il fuoco o il ferro che m'uccida.

 

Dove si muore? Un'anima fermenta

nella notte, più libera dell'aria.

Tutto è grande. La luna s'arroventa

 

occidua su l'altura solitaria,

simile a falce sopra grande incude.

Tutto è sogno. La landa originaria

 

verso il sogno propaga le sue nude

onde, come il Deserto senza strade.

L'asfodelo letèo vi si dischiude

 

come lungh'essi i talami dell'Ade.

L'asfodelo si lacera ed aulisce

sotto lo schianto di colui che cade.

 

Or più la pesta si profonda. Strisce

di nero sangue rigano il cammino.

Tale è il silenzio, che vi si scolpisce

 

l'evento come in un rigor divino.

Il cielo è sgombro. Solo vi s'intaglia

l'indomito adamante del Destino.

 

Non rombo, non fragore di battaglia,

non urlo di dolore. Ma chi muove

per la gran notte, e la gran notte eguaglia?

 

È la schiera quadrata, che va dove

l'Eroe la riconduce. Ha seppellito

a Tobras i suoi morti. Ha visto nuove

 

stelle sorgere a lei dall'infinito.

Ha represso il singulto del morente,

ha soffocato il lagno del ferito.

 

Col ghiado illude la sua sete ardente.

Il mulo che portava l'acqua, porta

il carico di sangue. Le cruente

 

some non hanno un gemito. La scorta

è un solo ferro che respira. Il duce

non chiama, non comanda, non esorta.

 

Cavalca innanzi. Ha seco la sua luce.

Ha seco l'alba nei deserti bui.

Quando laggiù gridava «A me!» nel truce

 

attimo, la sua gente era con lui.

S'egli cavalchi al limite del mondo,

la sua gente in silenzio andrà con lui.

 

In sommo della duna, sul profondo

cielo, è veduto sorgere dagli occhi

riversi del soldato moribondo.

 

E quegli a cui si piegano i ginocchi

riprende la sua lena su per l'erta

sinché l'arso polmone non gli sbocchi.

 

Taciturna così per la deserta

notte s'avanza la quadrata schiera,

con i suoi segni, verso l'alba certa,

 

simile al vóto d'una primavera

sacra che salga verso un fato augusto

con l'Eroe primogenito in cui spera.

 

Così, divina Italia, sotto il giusto

tuo sole o nelle tenebre, munita

e cauta, col palladio su l'affusto,

 

andar ti veggo verso la tua vita

nuova, e del tuo silenzio far vigore,

e far grandezza d'ogni tua ferita.

 

Nella mia notte, sopra il mio dolore,

questa suprema imagine si spande.

Chiudila nella forza del tuo cuore.

 

Non n'ebbe la tua guerra di più grande.

 



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