Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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NOTE AL LIBRO DI MEROPE

4 - La canzone dei trofei

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4 - La canzone dei trofei

 

Tersanaia è vecchio idiotismo pisano per Arsenale, come Arsanà, Tersanà, Tersaia. Dice la Cronaca pisana di Ranieri Sardo: «In del milleduegento anni, fue incominciata la Tersanaia di Pisa, e lo Camposanto fondato per lo arcivescovo Ubaldo, e comprato al Capitolo lo terreno assegnato. Ed è detto Camposanto, perché si recoe della terra del Camposanto d'Oltremare, quando tornonno dal passaggio preditto, e sparsesi in quello luogo». I Pisani, secondo le parole dello Storico, attendevano di continuo alle cose del mare, dove pareva a loro che consistesse ogni riputazione e onore. Perciò fu proposto nel Consiglio che si edificasse un arsenale maggiore; ed essendosi vinto il partito, vi si dette principio. Fu fatta questa fabbrica nella cittadella o fortezza vecchia dei Pisani, lungo le mura della città, volte dalla banda di ponente, con archi sessanta (come scrive Fra Lorenzo Taiuoli pistoiese); e le galere che vi si facevano, si mettevano in acqua sotto gli archi, che si vedono oggidì ancóra in quella cortina di muràglia la qual comincia dal Ponte a Mare e segue fino alla Porta.

Chìnzica e Ponte sono due quartieri di Pisa antica. Gli altri due sono Fuori di Porta e Mezzo. Chìnzica comprendeva i borghi d'Oltrarno rimasti rinchiusi nell'ultimo cerchio della città. Il cronista: «Gli Anziani mandorono bando, in sul vespero, che ogni persona dei quartieri di Chìnzica, populo e cavalieri...».

A una parete del Camposanto, dalla parte d'occidente, sono appese le catene di Portopisano che i Genovesi portarono via nel 1362 quando Perino Grimaldi era a soldo del Comune di Firenze... «Velsono le grosse catene che serravano il porto» narra Matteo Villani, «e quelle, carichi d'esse due carra, mandarono a Firenze...» Le quali furono poi restituite dai fratelli ai fratelli, quando l'Italia risorse nazione libera.

Sono conosciute da tutti le storie del Beato Rinieri, santo patrono dei Pisani, dipinte su le vaste pareti del Camposanto da Andrea di Firenze (1377), da quel medesimo che colori il Cappellone degli Spagnuoli in Santa Maria Novella.

Le galere pisane, condotte dall'arcivescovo Ubaldo dei Lanfranchi, tornarono dall'assedio di Tolemaide cariche della terra cavata sul Monte Calvario. E nel 1203, secondo la tradizione, la preziosa terra fu sparsa nel terreno a fianco della Cattedrale; dove furon sepolti i morti.

Dell'impresa dell'arcivescovo Daiberto, capitano di navi al recupero di Gerusalemme, l'antichissimo Annalista nominato Marangone scrive: «Anno Domini MXCVIII. Populus pisanus, iussu domini papae Urbani II, in navibus CXX ad liberandam Jerusalem de manibus paganorum profectus est. Quorum rector et ductor Daibertus Pisanae urbis archiepiscopus extitit...».

L'Ordine dei Cavalieri di San Stefano fu istituito dal Duca Cosimo de' Medici. E il primo di febbraio del 1562 una bolla pontificia sanciva l'istituzione, concedendo amplissimi privilegi per coloro che «a lode e gloria di Dio, a difesa della Fede ed alla guardia del Mediterraneo» ne facessero parte. Sede dell'Ordine fu la città di Pisa. Col denaro di Cosimo e con la soprintendenza del Vasari sorsero il Convento, il Palazzo del Consiglio e la Chiesa conventuale dedicata a San Stefano, oggi adorna delle bandiere e delle fiamme conquistate su i Barbareschi.

 

In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a destra dell'altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e l'altare è di legno e di avorio. Nel musaico il donatore è in ginocchio dinanzi all'Apostolo, e l'iscrizione dice:

 

Hoc studiis magnis fecit pia cura lohannis,

De Procida, dici meruit quae gemma Salerni.

 

Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Roberto Guiscardo.

 

Gaeta possiede, nella Cattedrale di Sant'Erasmo, il vessillo inviato da Pio V a Don Giovanni d'Austria e issato su la galèa reale nel giorno di Lepanto. Era il vessillo della Santa Lega. Il pontefice inviandolo raccomandò che non fosse spiegato se non nell'ora della battaglia. Secondo un passo delle memorie di Onorato Gaetani, Don Giovanni dopo la vittoria passando per Gaeta depose il vessillo nel Vescovado in onore del suo patrono Sant'Erasmo, assolvendo un vóto fatto nel pericolo. Il vessillo fu posto in una custodia e divenne il più prezioso ornamento dell'altar maggiore. Anche una vecchia cronaca della Casa Gattola di Gaeta racconta come Giovanni, figliuol di Carlo re di Spagna, approdasse a Gaeta con grande pompa ricevuto in porto dal vescovo Pietro e com'egli offerisse a Sant'Erasmo protettore e martire il vessillo ch'egli aveva issato a poppa della Reale il 7 di ottobre 1571. La sera stessa, il vincitore navigava alla volta della Sardegna.

Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento soldati del terzo di Sardegna; che fecero miracoli contro i trecento giannizzeri e i cento arcieri di Alì, quando le galere dei due capitani s'investirono. Il bassà, dal principio alla fine della fazione, non cessò dallo scoccare i suoi dardi. Ma le corde degli archi riscaldate si distendevano indebolendo i colpi, mentre gli infaticabili archibusieri cristiani avevano il vantaggio.

 

Il Capo di Teulada è la punta più meridionale della Sardegna, la più vicina all'Africa. Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele Meloni di Francesco, ferito nella giornata del 23 ottobre a Homs. Questo Sardo era tra quei quaranta marinai, comandati da Corrado Corradini veronese, che occuparono coi loro pezzi da sbarco l'altura del Margheb ingombra di rovine romane. Come puntava egli il suo cannone per l'ottantacinquesimo colpo, una palla araba passando per la clavicola gli traversò l'apice del polmone e gli restò sotto pelle fra le due scapole. Prima di piegarsi, lanciò contro il nemico nell'ingiuria uno sputo di sangue. Accorrendo i suoi uomini, li supplicò di attendere non a lui ma al pezzo già puntato. Insistendo gli uomini, l'ira gli dette la forza di sollevarsi. Egli vomitava sangue dal polmone, e il braccio sinistro fiaccato gli penzolava su l'anca. Nessuno osò trattenerlosorreggerlo. Solo egli si trascinò sino al suo cannone, col braccio valido aggiustò la mira e sparò. Si resse ancóra in piedi qualche attimo per riconoscere l'effetto del colpo, senza più colore di vita, con la bocca piena di vomito. Poi cadde a terra, di schianto.

Due altri Sardi, Salvatore Marceddu della nave Amalfi e Nicolò Grosso della Vittorio Emanuele, il primo nativo di Cagliari e il secondo di Carloforte, battellieri e pescatori, furono uccisi su la spiaggia della Giuliana. E avevano entrambi ventitré anni.

Carloforte è una città fortificata dell'isola di San Pietro, edificata in pendio su i contrafforti della Guardia dei Mori. L'isola, ricca di falchi, rimase per secoli deserta, dopo le feroci devastazioni dei Saraceni e dei Barbareschi. Era il desolato dominio d'un patrizio, duca di San Pietro; il quale pensò di trasportarvi i Genovesi dell'isola coloniale di Tabarca, che i Turchi di Tunisi molestavano senza tregua. Il genovese Agostino Tagliafico sbarcò nell'isola con i suoi popolani nel 1736 e costruì su l'altura la fortezza di Carloforte, che fu guardata da una piccola guarnigione.

La colonia per alcuni anni prosperò, industriandosi in saline, in tonnare, in pesche di coralli, in culture agrarie. Ma la mattina del 2 settembre 1798 gli abitanti, mentre dormivano ancóra senza sospetto nelle loro case, furono sorpresi da uno sbarco di predatori tunisini che misero tutta la terra a sacco crudelissimamente e spinsero alla spiaggia come mandria e condussero in schiavitù un migliaio d'infelici; ché i più animosi erano in alto mare occupati alla pesca. Dopo cinque anni di duro servaggio, per intercessione e per danaro di Pio VIII e di Vittorio Emanuele, furono riscattati. E Carloforte allora fu munita di mura, fuorché dalla parte della spiaggia dove fu piantata una batteria a fior d'acqua.

 

L'Arco di Settimio Severo, nel Fòro Romano, tra il Carcere Mamertino e i Rostri, tra il Lapis Niger e l'Ombelico dell'Urbe, fu eretto all'Imperatore nell'anno 203 dopo Cristo; e commemora anche taluna delle sue vittorie su gli Arabi. Il primo restauratore della nostra marina, Simone di Saint-Bon, ha in Campo Verano la sua tomba; che oggi la riconoscenza nazionale dovrebbe ricoprire di corone. A San Giorgio di Lissa, comandando la Formidabile, penetrò nel porto angusto, s'imbozzò a breve gittata dalla più potente difesa, innanzi alla batteria della Madonna, e vi si mantenne imperterrito, con prodigi di valore, destando l'ammirazione degli stessi nemici.

 

Gli mentirono i Fati, d'innanzi a Lissa tonante.

Quando su la sua nave già rotta dagli obici e tutta

vermiglia di sangue, sul ponte ingombro di corpi

mùtili Egli stette impavido incolume solo

nel tragico ardore, non parve compirsi il prodigio

per un patto fatale ed Egli omai sacro alla guerra

futura, a una strage più vasta, a una gloria più vasta?

 

Odi navali (1892)

 

 


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