Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Laudi
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NOTE AL LIBRO DI MEROPE

6 - La canzone d'Elena di Francia

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6 - La canzone d'Elena di Francia

 

Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell'Orsa minore, i sette trioni degli antichi; perché esse scorgono e dirigono il loro cammino nella notte.

 

Tragiche favole si formarono intorno alle Pleiadi.  Sono esse la costellazione nautica per eccellenza; poiché gli antichi non ardivano dar principio alla navigazione prima del nascer eliaco delle Pleiadi nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incominciava il tempo delle tempeste, e il nocchiero schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella che protegge questo libro, è oscura; e la favola narra ch'ella si nasconda per essersi congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale.

 

San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secondo passaggio d'oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta dell'esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. «Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...» La scena è ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. «Come faremo noi, Damarisposero gli Italiani. «Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.» La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. «Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville...» Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono.

Nell'avanzata verso Mansura, l'esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s'accresceva il numero degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gengive si gonfiavano e marcivano. «La chars de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives...» Il Siniscalco narra come l'orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. «Grans pitiés estoit d'oir braire les gens parmi l'ost ausquiex l'on copoit la char morte; car il bréoient comme femmes qui traveillent d'enfant

I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l'esempio e li portava e li seppelliva con le sue proprie mani. Il Confessore della regina Margherita racconta come, seppellendo il Re i morti, i Vescovi nell'officiare si turassero il naso pel gran fetore: ma non fu mai visto il Re imitarli.

«Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu an bon roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dévotement.»

Mentre Roberto d'Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e vi restava ucciso, San Luigi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono delle trombe e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel cavaliere, avanzante di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d'oro in testa, con in pugno una spada alemanna. «Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des épaules en haut, un haume d'or à son chef une épée d'Allemagne en sa mainQuando il conte d'Angiò su la via del Cairo fu assalito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal getto dei fuochi lavorati, il Re lo salvò scagliandosi a cavallo contro gli assalitori. La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa.

Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la grazia delle lagrime e come si lamentasse d'esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime ma sol qualche gocciola ad irrorare l'aridità del suo cuore. «Li sainz roi disoit dévotement: O sire Dieux, je n'ose requerre fontaine de lermes: ançois me souffisissent petites goutes à arouser la secherèce de mon cuer... Lesqueles, quand il le sentoit courre par sa face, souef et entrer dans sa bouche, eles li sembloient si savoureuses et très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bouche.»

Durante l'agonia, dopo il secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Tristano, era già morto sul vascello.

Carlo d'Angiò venne allora di Sicilia «con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento» come narra Giovanni Villani; patteggiò col soldato di Tunisi; e ripartì con le relique del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani l'Invitta (Drepanum civitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo minicipale) Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane. Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i primi miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il re novello di Francia Filippo l'Ardito con sua moglie Isabella d'Aragona e i superstiti della tristissima impresa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e s'internarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La giovane regina, benché incinta di sei mesi, spinse arditamente il cavallo tra i sassi sdrucciolevoliPraesunta quadam virili audacia pereundi» dice Saba Malaspina); ma la bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell'acqua ghiaccia. Fu sollevata, posta in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. «Offensa lethaliter et in ipso casu confracta, laesus fuit uterus...» Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e rese l'anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come le carni fossero sepolte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un nobile mausoleo fu eretto nella cattedrale cosentina «perpulcra, digna memoria, materiae ac artis concertatione glorifica» presso l'altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltura. Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall'acume di Nicola Arnone e illustrato da uno studio eccellente di Emilio Bertaux.

 

Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d'Angiò nel canto settimo del Purgatorio.

 

Anche al Nasuto vanno mie parole...

 

E, poco innanzi:

 

Quel che parmembruto e che s'accorda,

cantando, con colui dal maschio naso...

 

E Giovanni Villani: «Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso...».

Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: «Alla comune arma della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d'argento». E, a proposito di Carlo, il Villani: «La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e fiordaliso d'oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia».

 

L'allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giustificata dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi in Santa Croce; la quale è certo inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell'Ordine. Il capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come sancto Lodovico andò a visitare frate Egidio e mai non s'erano veduti. Et sança parlare si cognobbono insieme. Il San Luigi giottesco tiene in una mano lo scettro e nell'altra il cordiglio dei Terziarii; e il suo manto azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi.

 

Facile è riconoscere il luogo del verso di Dante:

 

Così è germinato questo fiore.

 

L'altro verso e l'emistichio son derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri sibillini.

 

 


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