IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggiate lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest'altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli».
L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l'intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò, il sultano diede ordine all'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso dell'armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell'investimento persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle mura, parevano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico.
Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino al pettorale. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l'ancoraggio di Bessikhtach.
Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena.
Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occupatori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d'anelli, che fu rinvenuta nella tasca d'un Croato ucciso.
Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assaliva con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l'esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volendo morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente, l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo, riconobbero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali.
I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lasciato abbattere l'ultimo segno dell'Impero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l'altar maggiore!
Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca gettata dalla nave Amalfi.
Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercantile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel collare le parole «Custos iustitiae».
Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non soltanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la costa dell'Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi, per decreto dell'Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili marinai.
Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e despoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s'assumeva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli.
Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila.
Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esistono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per impadronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345.
Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea.
Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Governo stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vignoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani.
Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo.
Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectionem masticis».
I dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri fu quell'Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis.
Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i morti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all'audacissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle.
I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monumento del Canaris nella loro Villa Giulia.
Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meriterebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l'arte lunga e la vita breve concedessero all'autore di questa Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'ogni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ultima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l'ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforzate, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Provveditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto».
Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le più insigni del mare.
La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell'Autorità politica, suonavano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano».
Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.».
La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.