Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Agli Aviatori del «Giro D’Italia»

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Agli
Aviatori del «Giro D’Italia»

Tutti i miei compagni di guerra conoscono la mia sollecitudine mai stanca di offerire ai più cari un segno di me – e della mia fede invitta – nelle radunate prima dell’assalto o nell’inizio del combattimento quando mi gloriavo d’esser fante, o sopra un campo di squadre alate, o sopra il ponte di una nave sottile: dove ai migliori il segno confermava la volontà di superare sé stessi.

Per ciò l’altrieri, sul campo di Ghedi, ritrovai tanta prontezza e allegrezza ne’ miei vecchi muscoli quando raggiunsi il primo velivolo in punto di toccar terra e tesi al pilota il primo di que’ miei quadrati azzurri e rossi dipinti da me coi due colori araldici di Montenevoso e distinti delle mie varie imprese di comandante, simili a quella specie di guidone quadro che issavano alla maestra le galere capitane e talvolta anche le sensili quando pigliavano alcun comando.

Mi ricordavo, o Brack-Papa, o Guazzetti, o Liberati, o mio Bonucci che sapiente e acutissimo hai l’orecchio al tono del motore e a quel del violoncello, con un gran fremito mi ricordavo dei lontani commiati fraterni sul taglio della sorte. Allora le mie piccole bandiere, poco più larghe d’un cuore maschio, erano come le faville della bandiera grande. La divinità pareva a noi presente come nella distribuzione delle specie eucaristiche. Tutte le mani si tendevano per averne una. Ve ne furon di quelle che sul labbro di una foiba o sul dente di una cresta la tennero stretta come un segno di passione, quasi impressa come la stìmate della patria, nel sacramento di una morte sublime. Conosciamo i nomi. Non abbiam dimenticato nessun nome né lo dimenticheremo mai.

L’altrieri, a Ghedi, il vento delle eliche mi gettava sul viso una polvere calda che, nel chiudere gli occhi, io credetti mi venisse di molto lontano.

E l’offerta e l’incitazione e il commiato anche una volta s’affrettavano sul taglio della sorte, sul filo del rischio, tra la volontà di vincere e la noncuranza di morire.

Nessuno forse pensò come quel balenìo di allegrezza e quell’abondanza di risa fossero d’un «profeta in patria» che vedeva pienamente avverata la sua profezia: l’annunzio di Centocelle nel luglio innanzi al settembre di Ronchi. Dissi ai compagni quel che fieramente e allegramente i compagni in Ghedi testimoniarono a me guardandomi dentro gli occhi e serrandomi le mani. Dissi: «Fra tutti i combattenti siamo i privilegiati: possiamo ancóra vincere, possiamo ancóra morire; vogliamo ancóra vincere e vogliamo ancóra morire. I nostri campi non si mutano in piazze d’armi, ma restano campi di prova e di battaglia. Ogni giorno possiamo noi di qui partire per la maravigliosa avventura, per l’ultima avventura. Come alla guerra noi demmo i nostri eroi, così li abbiamo dati all’armistizio, così li daremo alla pace

Era ad ascoltarmi gente mia superstite de’ miei campi del Veneto e del Friuli. E a quando a quando, ne’ tanti ricordi, il loro stesso tremito mi faceva tremare la parola a sommo del petto non disarmato.

«Ad Aviano, alla Comina, ci ricaricavamo di bombe e ripartivamo contro il nemico, con le ali che parevan crivelli, senza contare i buchi e senza curarci delle toppe, alla gran ventura. Le eliche scheggiate, le crociere di comando spezzate, i timoni squarciati, le tubazioni rotte non c’impedivano di tenere il cielo. Le api di fuoco mellificavano negli alveari metallici dei nostri radiatori. E ciascuno di noi sa l’ebrezza di quel miele marziale. Chi non la sente riscoppiare dal cuore

La sentii l’altrieri anche ne’ più giovani, anche nei novelli, in coloro che non poterono conoscere i mattini dell’Ermada e del Montello, le notti di Cattaro e di Pola, né la bellezza stellare dei giochi funebri sopra il nemico per la morte di Francesco Baracca. Ma conoscerete altri mattini, altre notti, altri ardiri.

Allora avevamo osato l’inosabile, troppo spesso contro l’avversione dei nostri capi, nemici mal dissimulati del volo e dei volatori. Oggi non siete voi tutti ansiosi di osare l’inosabile? Certo, nella guerra, fummo noi le guardie alate del confine e i precursori aerei dei nostri eserciti. Di da ogni confine, di da ogni orizzonte, di da ogni limite noto e ignoto: ecco il nuovo proposito, il vostro. Il prodigio non è per voi divenuto un gioco facile? L’audacia non è una consuetudine? Siete gli emuli degli uccelli ma più liberi di essi perché non amate il nido e non amate la mèta. Volete andare e dovete andare di nido in nido, di mèta in mèta, e di morte in morte.

V’è oggi un capo di aviatori aviatore egli stesso. V’è un ministro dell’Aeronautica che sa navigare nell’aria egli stesso: un ministro che preferisce il suo duro seggiolino di pilota alla sua comoda poltrona di firmante, o di firmatore come direbbe Tacito. Egli sembra avere adottato per voi la mia sentenza marina di Bùccari: Memento audere semper.

E per lui e per voi un’altra sentenza marina diventa celeste: Volare necesse est, vivere non est necesse.

Una verità, che io intravidi negli anni dell’ozio sedentario, oggi è manifesta; e l’altrieri nel mattino di Ghedi mi parve solare. L’istinto icario, l’istinto umano del volo, che già travagliava l’inquietudine del Vinci e si rivelava nei disegni esatti e nei congegni reconditi, non s’è approfondito e non ha preso vigore e ardore in nessuna stirpe come nella nostra. Avete inteso? In nessuna stirpe come nella nostra. Pareva che fra vent’anni, fra trent’anni, fra cinquanta dovessimo avere una generazione in cui l’ansia del volo fosse già trasmessa come un retaggio. Per una di quelle anticipazioni che sono i prodigi del nostro genio, l’ansia si è risvegliata nella gioventù presente. L’altrieri appunto nel campo di Ghedi voi toccavate appena la terra, voi sfioravate appena l’erba arsiccia per risollevarvi con una rapidità che del pilota e del velivolo facevano una sola forza agevole più perfettamente delle due nature nel centauro a galoppo.

La volontà dell’Aquila romana, che precedeva per tutta la terra la marcia cadenzata dei legionarii, sembra rinascere ne’ vostri giovani stormi. Essa non è più una insegna di milizie pedestri; è una crescente celerità di conquistatori aquìlei.

Ed ecco chiaro il simbolo di questo anello che io dono al compagno vittorioso nel severissimo certame. L’aquila d’oro serra con gli artigli un rubino in forma di vermiglio cuore; e incise nella cartella sono le tre parole della prodezza alata: Cum pennis cor.

Il comandante della Prima Squadriglia navale S. A. aveva espresso la medesima sentenza in due parole: Sufficit animus. Le ritroverete in taluno de’ miei quadrati azzurri e rossi, come nel margine di questi fogli dove scrivo. Non la perfezione penetrante dell’elica e la costante potenza del motore valgono senza l’animo.

Cum pennis cor. Il primo anello io me lo tolsi dal dito, in Venezia, per donarlo al giovine inglese vincitore d’una delle gare che prendono il nome dalla Coppa Schneider. Il secondo fu da me inviato all’altro vincitore inglese in Inghilterra. Mentre scrivo, non conosco la sorte del vasto agone e dell’anello aquìleo. Il cuore mi batte e mi balza, o Sacchi.

Ma è bello che la razza dell’audace e pertinace eroe Segrave abbia mandato nei cieli d’Italiaœtheris arces – una agonista mirabile come Miss Spooner.

Non è vero quel che della sua acredine scioccamente fu detto. Quando mi chinai sotto la sua ala mentre l’astro dell’elica era tuttavia razzante, vidi una gran fiamma di allegrezza nel ben costrutto viso che si volgeva da un collo muscoloso ma svelto come quel della vergine dagli occhi cèsii. Donandole il guidone quadrato color di sangue le gridai nello strepito il primo verso dell’Ode alla lòdola: Hail to thee, blithe Spirit!

Ella rideva. E io pensavo che non conoscesse il poeta di Adonais né quello di Alcyone. Teach me half the gladnessThat thy brain must know…

Quanto quell’allegrezza mi piacque! Gladness.

O giovani compagni, siate anche voi «figliuoli dell’allegrezza» secondo il modo biblico. Ve lo dico: bisogna che vi mostriate e siate figliuoli dell’allegrezza.

Anch’io sono e voglio essere, contro tutte le mie miserie, tutte le mie malinconie, tutti i miei crucci.

With thy clear keen joyance

Languor cannot be:

Shadow of annoyance

Never came near thee…

Il Vittoriale: 31 agosto 1930.

Gabriele d’Annunzio



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