Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUINTO - CANTI DELLA GUERRA LATINA

5 - Preghiere dell'Avvento

5 - PEL GENERALISSIMO

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5 - PEL GENERALISSIMO

 

Questi, che vedi curvo su le carte,

nel più duro granito del Verbano

tagliato e scarpellato fu, di mano

di maestro; e il vigor soverchiò l'arte.

 

La sua chiusa virtù, che par novella,

nella tenacia dell'antica schiatta

usa a fare e patire, assuefatta

ad attendere in fede la sua stella,

 

si foggiò per i secoli, celato

diamante che incudine non doma.

V'incise il segno mistico di Roma,

Dio d'Italia, l'acume del tuo fato.

 

Guarda il suo maschio vólto dove l'orma

del tempo e il solco dello studio scava

nella tristezza della carne ignava

e trova l'osso che non si difforma.

 

Conta le sue fatiche a ruga a ruga,

novera gli anni suoi, segno per segno:

giovine il teschio vige, quasi ordegno

di quella volontà che il cor gli fruga.

 

Non meno adunco vomere mordea

la fronte di quel giusto che l'obbrobrio

cinse; ma v'era incancellato il sobrio

eroe di Maratona e di Platea.

 

Guarda la sua mascella che tien fermo,

guarda severità della sua bocca

onde il comando ed il castigo scocca,

e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo

 

gravata sopra il chiaro occhio che scaglia

l'anima al segno e il tratto non misura.

Sempre in tutt'arme egli è senza armatura.

Tutta nel pugno nudo ha la battaglia.

 

Quel condottiere che dal piedestallo

la morta riva domina in Vinegia

minacciata dal barbaro e dispregia

la minaccia del ciel, solo, a cavallo,

 

Bartolomeo grifagno come Dante

che converso abbia in elmo il suo cappuccio

a gote, chiuso in piastra il suo corruccio,

preso a trattar cavalleggiere e fante,

 

tu lo vedi al segnale delle trombe

sollevare e sferrare i battaglioni

come balestra lancia i suoi bolzoni,

come mortaio lancia le sue bombe.

 

Tal questi, senz'arcione ma più grande,

senza gestogrido, solo armato

del suo tacito genio e del suo fato,

amplia la forza che quel bronzo spande.

 

Egli ha mura da prendere, fiumane

da valicare e gioghi e vette e gole,

ghiacciai deserti, valli senza sole,

fosche petraie, squallide biancane.

 

Vigila ai ponti dell'Isonzo; a Plezzo

tuona; a Tolmino folgora; tien Plava

e la vetta, Voraia e il passo; scava

la trincea nella neve ed issa il pezzo.

 

Gorizia in cor gli crolla. Il Carso gronda

sangue inesausto nel suo petto. Tutta

la terra combattuta, arsa e distrutta,

dentro gli sorge, dentro gli sprofonda.

 

La malga e il picco, il botro e la laguna,

la roccia e il muro, l'argine e la fossa

vivono in lui come le vene e l'ossa,

come i disegni della sua fortuna.

 

Egli è la terra ed è l'assalitore.

E la forza degli uomini respira

in lui, palpita in lui, freme e s'adira,

giubila e canta in lui, combatte e muore.

 

Verso tutte le cime della gloria

egli la incalza. Ecco, subitamente

il suo pensiero si fa carne ardente,

grido e strage si fa, morte e vittoria.

 

Tutte le notti dallo Stelvio al Carso

la gran barra di fuoco arde e risuona.

Egli la sua certezza ne incorona,

la sua certezza in te, Dio ricomparso.

 

O Dio d'Italia, tieni la tua mano

su questa fronte che facesti dura

più delle fronti loro. Egli ti giura

che tanto sangue non t'è dato invano.

 

Egli si prostra come il donatore

che giugnea le manopole di maglia

in atto pio, nel cuor della battaglia

avendo colto un portentoso fiore.

 

La sua casa egli pensa sul suo lago

quieta, dove per la porta adorna

d'una ghirlanda il terzo dei Cadorna

rientrerà, sol di silenzii pago,

 

e innanzi alle due mute Ombre severe

scioglierà gli alti vóti, i grandi fati

adempirà, l'isole dei beati

quivi splendendo nell'albor leggiere.

 

O Dio, per questo duce che ci spezza

il tuo pane, io ti prego che tu m'oda.

Acùmina la sua certezza, e inchioda

nei nostri petti, o Dio, la sua certezza.

 

19 decembre 1915.

 

 

 


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