Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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LIBRO QUINTO - CANTI DELLA GUERRA LATINA

14 - Cantico per l'ottava della vittoria

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14 - Cantico per l'ottava della vittoria

 

Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore.

E vendica la potenza del canto sul clamore,

o Verità cinta di quercia.

Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro

che la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo

mal mondato nel trivio bercia.

 

Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi scegli

come quando su lo strame d'Italia i tristi vegli

rumavan la menzogna stracchi

e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra

al Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerra

contro il sogghigno dei vigliacchi.

 

O domatrice di fuochi, foggiami tu quest'ode

e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode

mi trema e condurla non posso.

Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta.

E rimbombare odo dentro di me, come alla porta

del tempio, uno scudo percosso.

 

Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio.

Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio

percote lo scudo raggiante?

Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice.

E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatrice

rivede sorridere Dante.

 

Come chi chiama la luce pel suo nome divino,

come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino

comanda che nasca dal mare,

o Patria, così ti chiama colui che trascolora

di dolcezza e di spavento. Non tu sembri un'aurora

che abbia volontà di cantare?

 

Palpiti come un' aurora colma di melodia,

come un'aurora chiomata d'astri ignoti, che sia

apparsa alla soglia del mondo.

Dalle calcagna possenti fino alle rosee dita

non sei se non il preludio della novella vita,

una nell'alto e nel profondo.

 

E nel profondo e nell'alto sei tu stessa l'aurora

a cui ti facemmo sacra con l'aratro e la prora

quando la notte era su noi.

La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.

Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo

il mare la terra e gli eroi.

 

Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta

da secoli per cantare quest'inno che sovrasta

la speranza e supera il fato.

Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima

ti rapì nel Paradiso dov'arde su la cima

dell'amore il verso stellato.

 

Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modo

in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t'odo

fra il Tevere e il Capitolino.

Ecco che t'odo fra l'Alpe Giulia e l'Alpe Apuana.

T'odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana.

E l'Istria è un sol coro latino.

 

E il leone di Parenzo rugge col miele in gola.

E la vittoria cilestra nel colossèo di Pola

si prodiga all'arcato abbraccio.

E le città di Dalmazia si scingono sul mare

cantando dai bei veroni veneti, bionde e chiare

nell'ambra di Vettor Carpaccio.

 

E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede,

ch'è scolpita nel mio petto com'è scolpita appiede

di Santa Maria Zobenigo,

tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia,

ridorata come quando Venezia si rispecchia

nell'oro sciolta dal caligo.

 

E la seconda non fulge sopra il riposto mare

dalla gran nave di sasso, tra battistero e altare,

ma per gli occhi del suo veggente,

ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi

dall'ardore del futuro ch'egli vede levarsi

oggi dal sangue immortalmente.

 

O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi,

la cecità del profeta reduce dai tre mondi

anch'egli ma senza corona!

O Spàlato imperiale, Spàlato piena d'arche

sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche

sopra le tombe di Salona!

 

O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne

dàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonne

come il fuoco nell'alabastro.

La tua gioia è come l'oro fulva. Sotto l'artiglio

il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio

il tuo cipresso nell'incastro.

 

La sùbita primavera si crinisce di pioggia.

La rondine d'oriente torna nella tua loggia

ad annunciar la Santa Entrata.

Disseppellisci di sotto l'altare i tuoi stendardi

e li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi,

o tu che sei la più dorata.

 

E danzano la tua gioia lungh'essa la tua costa

le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta,

e coi cembali e col saltero.

O Solta ricca di miele che sa di rosmarino!

O sasso della Donzella dove l'amor latino

rinnovellò la morte d'Ero!

 

E s'inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa.

E la vittoria navale coglie il lauro e la rosa

nell'oleandro di Lacroma.

E la Libertà dal vasto petto, l'unica Musa,

canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa;

e tu bevi il carme di Roma.

 

Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito,

canto nato col mattino. Tocca il cuore ferito

degli eroi nella terra nera.

Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti muti

nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti

quando la grande alba non era.

 

Si levano gli insepolti, si levano i sepolti:

al sommo del loro ossame portano i loro volti

trasfigurati, l'ebre gole.

Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi

come se in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisi

spirasse il cantico del sole.

 

Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale,

nella roccia d'Ercavallo che l'ascia trionfale

tagliò come ceppo d'abeto,

nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna,

nella Vallarsa ricinta d'arci che il sole espugna

per baciar laggiù Rovereto;

 

e tra l'Astico e il Rio Freddo, di girone in girone,

negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone,

che sono i fratelli del Grappa,

essi cantano con calde bocche, riavvampati

da un sangue repente; e vanno, s'accrescono, soldati

della luce, di tappa in tappa.

 

Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch'esso

di gioventù sovrumana, come aveva promesso?

«Ch'io venga anche all'ultima guerra!

Legatemi al mio cavallo. Ma ch'io veda la stella

d'Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella.

Ma ch'io venga all'ultima guerra

 

Giovine, giovine come nell'estancia, a Maromba,

alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la tromba

dal Vascello e dalla Corsina

sonò su Roma serva slargando col selvaggio

squillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio

della nova gloria latina,

 

giovine e con la criniera fulva come l'estate,

sul gran stallone di neve dalle froge rosate,

che per ala ha il candido manto,

cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,

fiso alla morte, e l'amore della sua morta gente

l'inalza alla vita del canto.

 

O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira

dal mio petto? Son io servo dell'inno senza lira

o son io signore del fato?

Tutte le vie della notte furon da me percorse

per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse

come questo giorno m'è nato?

 

Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni

della trasfiguratrice? Che val se m'incoroni?

O fine delle cose impure!

Son nel carcere dell'ossa, nei lacci delle vene,

e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene,

in tutte le tue creature.

 

Con una meravigliosa gioia tesi le mani

a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani».

Sempre diceva ella: «Più alto!».

La inseguii di da ogni mèta al mio cor promessa.

Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessa

il volo la schiuma l'assalto.

 

O mio compagno sublime, perché t'ho io deluso?

e perché fu ingannata l'anima? Avevo chiuso

te nell'arca e la mia speranza,

tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamente

avevo teco bevuto l'acqua senza sorgente

e celebrato l'alleanza.

 

Risorto sei tu dall'arca, fra il croscio dei cipressi.

L'arcangelo del mio nome, nel del Resurressi,

ha scoperchiato il sasso cavo.

E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell'asta,

sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta

forza nel lustrale Timavo.

 

Ma dov'era il tuo fratello? la sua forza dov'era?

Non l'avevano raccolto dentro la tua bandiera

stessa i compagni di ardore.

Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante

dell'ala avevan disteso, né con le foglie sante

coperto il nudato suo cuore;

 

veduto di tra le foglie dell'alloro pugnace

ardere subitamente nel profondo torace

un fiore perfetto di fuoco.

Eroe, tu m'attendi invano sul tuo fiume lustrale.

Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale,

in te vita e morte oggi invoco.

 

Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato.

Si fa mattutino canto lo spirito esalato.

L'agonia si fa melodia.

Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo.

La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.

Regna «colui che più s'indìa».

 

Come chi chiama la luce pel suo nome divino,

come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino

comanda che nasca dall'acque,

o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore

e sono il tuo testimonio. Se m'odi, il mio amore

sa come questo giorno nacque.

 

Sto tra la vita e la morte, vate senza corona.

Da oriente a ponente l'inno prima s'intona:

«La vita riculmina in gloria!».

Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo.

Da ostro a settentrione scroscia l'inno secondo:

«La morte s'abissa in vittoria!».

 

3-11 novembre 1918.

 


 


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