Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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NOTE AI CANTI DELLA GUERRA LATINA

1 - Ode alla nazione Serba

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1 - Ode alla nazione Serba

 

Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine che fece (nell'anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell'anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «primogenito di Cristo».

 

Lazaro Greblanovic, conte, creduto figliuolo naturale di Stefano, fu l'ultimo re grande di Serbia. Ebba Mìliza per donna, d'insigne sangue, d'animo insigne. Nell'anno 1389 sul piano di Cossovo fu dal Turco reciso a un tratto il vigore della nazione e a Lazaro il capo; che poi, gettato nella corrente, raggiò a miracolo. Venne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e senza le lacrime dei poveretti».

Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Mìliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l'oste loro» si narra nel carme eroico.

 

Vàlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sicché sempre pregava Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio assegnato la difesa della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche migliaio d'uomini sostenne maravigliosamente, l'assedio. Senza più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia d'un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte moltiplicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lontananza una compagnia di Serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo de' suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico!» Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate.

Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati.

 

Vucàssino ammazzato il pio imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vicenda di vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella Màriza sanguinosa (1372)

Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto Cralievic, cioè figliuolo del re, lo stupendo eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Quando Marco ebbe trecent'anni, trecent'anni di giustizia e di guerra, la Vila gli annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s'ode il suo grande cavallo macchiato nitrire, e la spada è già nuda...

Uno dei canti epici più belli racconta come Marco di Prìlipa giovinetto sia chiamato ad aggiudicare l'impero fra i contendenti. «Re Vucàssino dice: «è mio». Uliesa despoto: «no, gli è mio». Il voivoda Goico: «no, ch'è mio».» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: «ad Urosio l'impero».»

 

Le Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorrere, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti. Cavalcano sopra le nubi, sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammoniscono.

 

Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi combattono a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per lei «dalla fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio accendeva lo spento coraggio de' suoi».

 

Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321)furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de' Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella  della Stirpe regia di Orosia.


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