Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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1. Questo mi fu raccontato ieri, prima di sera, sul pontone

Ma egli ha una voce che somiglia a una di quelle giornate torbide di marzo, tutte sprazzi argentini, ventate subitanee, rovesci d’acqua e di gragnuola, che si vede in certi ritratti manierati; oppure talvolta pare che ritraggano a sé lo sguardo e galleggino su non so che acqua di sogno come due gusci lisci di nocciuola.

Né, veduto di fronte, egli è lo stesso uomo che si mostra di profilo: a una sensualità avventurosa, insofferente di costrizione ma intesa a scegliere pur nella sua subitezza, egli sembra volgendosi opporre l’abnegata volontà di chi senza fallo scopre il medesimo orrore vuoto sotto i più facili e i più difficili capricci della vita. Le sue belle mani, a volta a volta nervose come quelle del grande violinista tra archetto e tastatura o disossate e morbide come quelle del famoso sarto in punto di provare il vestito alla dama, con un gesto brusco fanno di tratto in tratto scrocchiare le dita parendo saggiare il tono dello scheletro celato. Allora certe rapide onde sensitive, palesandoglisi al pomello della gota, alla tempia, al mento, mi ricordano la pelle troppo fina dei cavalli di sangue e qualche volta anche il muso comico dei conigli.

Or che mirabile strumento animato per rilevar con un gesto, con un accento, con una pausa, con un cenno, con uno sguardo i valori delle cose visibili e invisibili!

Egli diceva iersera, per quel misto di fanciullaggine e di magia: «La notte non è onnipresente e perpetua? Se chiudo il pugno, sotto il pieno meriggio, ecco, faccio la notte nel cavo della mia mano». Così, narrando, egli mi faceva sentire di continuo quella meravigliosa oscurità su cui si disegnano le forme e gli eventi, quella divina ombra che riempie la piega d’una gonna o la fessura d’un cuore.

Disperando d’imitare pur lontanamente l’arte sua viva, nel riferire taluno de’ suoi racconti io mi studio d’imaginarmi che il caso sia seguìto a me medesimo.



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