Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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2. Ero in una di quelle giornate di tedio, che si dice sieno state inventate per le nature ambigue dal precettore di Nerone, quando la virtù attiva della vita si ritrae dai cerchi dell’anima come l’acqua dalle gore d’una gualchiera o d’un mulino lasciando a secco i fossi ingombri di rottami e di lordumi intorno ai congegni inerti.

Par di fiutare in ogni pensiero un odore di melma in fermento. Il corpo stesso è come sguainato e stroncato: cerca di sostenersi, di appoggiarsi, di trovar requie in qualche attitudine durevole; ma somiglia quei vecchi crocifissi mancanti della croce, che nelle botteghe degli antiquarii sembran rinchiodati a supplizio in qualunque luogo e contro qualunque arnese si ritrovino.

Anche la stagione secondava tale miseria; ché pioveva e non pioveva, nella Landa. Una nuvola bucherata spruzzolava un tratto di sabbione con gocciole grosse e rade che, per esser quasi tiepide, parevan cadute da uno schiumatoio. Ma di dalla banda annaffiata s’intravedeva la sabbia secca, e più in un’altra spruzzaglia, e più in un’altra lista di alido; cosicché anche la terra pareva in malessere come quelle donne incinte che si sentono la pelle a chiazze fredda e calda, qualcosa d’informe dentro sobbalzando in una profondità indefinita.

Stavo per lasciare dietro di me, al cancello d’un giardino, una di quelle dolci e noiose creature che, all’incontro della giovenile visione di Dante, si ostinano di tener senza fine su le braccia il loro amore esanime «involto in un drappo sanguigno leggiermente» per non potersi mai risolvere a seppellirlo, e si sforzano di farci mangiare «per ingegno» il loro caro cuore che pur non arde. Vide cor meum.

Udivo il suono della lamentazione consueta come quel ronzio che il chinino lascia nell’orecchio del malato di febbri dopo l’accesso. E non istavodentro né fuori; ché la pietra della soglia era tra noi, cosparsa di pòlline giallo. E vedevo quella farina selvaggia attaccarsi alla pittura recente del cancello nuovo, riempiere gli interstizii, involgere una bolla di gomma che in una traversa di quel legno di pino non interamente morto si gonfiava a quel modo che la vescica s’alza nel palmo d’una mano avanti d’incallire.

Un vasetto di coccio sospeso a un tronco scorticato aveva ricevuto d’un tratto tanta ragia, al primo muovere del succhio, che ne traboccava in lunghi filamenti d’apparenza quasi zuccherina, che un tempo il maestro di retorica proponeva su la lunga panca dell’esame. L’avevo così mal composta che, per punizione, ero costretto a portare il foglio appiccato con due spilli dietro la schiena.

Allora, scendendo verso il Quartiere d’inverno per i sentieri della foresta, pensai con invidia a quei rari pastori landesi, ultimi discendenti de’ vecchi fantastici che su gli alti trampoli varcavano stagni e pantani del deserto arenoso e cogran passi potevan eguagliare il galoppo d’un cavallo de’ Pirenei.

Ne avevo conosciuto uno nella macchia, pochi giorni innanzi. Ridotta la misura delle pertiche leggendarie a due modesti mozziconi, messi ad armacollo l’ombrello verdognolo e il sacchetto brunastro, calcato su gli orecchi il berretto di lana in forma di fungo, costui passava tutto il santo giorno immobile contro il sostegno del bastone, lavorando di calzette coi ferri, immune di pensieri come il suo cane, indifferente alla fuga del tempo come dev’essere l’ampolla dell’oriuolo da polvere, con la sua lingua riposta per anni nel silenzio della sua saliva come la sardina conservata nell’olio della scatola.


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