Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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3. Lungi dagli occhi amati o non più amati, la luce pare diversa.

Per entrare nella nostra camera, il cielo aspetta che le lampade sieno spente.

Tra le raschiature fresche dei pini (in distanza i fusti avevan l’aria di portare inchiodate quelle pelli rossigne di capretti che soglion pendere agli usci dei macellai) scorgevo la città variopinta dell’Etisìa covata da un tepore umidiccio di stufa alquanto disgustoso come quello che si respira in certi bagni turchi trasportati in Occidente, ove gli uomini grassi s’affannano a sudare leggendo il giornale della loro fede spiegato su la pancia grondante.

Le ville parevano leggiadramente costruite di carton pesto e di latta traforata da un architettorello girondino con pizzo al mento e svolazzo alla cravatta, che si fosse ingegnato di conciliare nell’arte sua ospitale l’inspirazione della Riviera ligure a quella del Lago dei Quattro Cantoni, entrambe consolatrici. Ogni facciata portava inscritto in lettere di stil novo il suo bravo nome fornito dalla mitologia, dalla botanica, dai fasti civici o dalla buaggine sentimentale. Ogni interno doveva avere il suo vaso di fiori artificiali sotto la campana di cristallo, la sua grossa conchiglia bitorzoluta, la sua figurina di Giovanna d’Arco in armatura di piombaggine, e la sua pendola col cuccù per chiamare la felicità o la morte.

Cumuli di ciarpe suo parente, sonava uno di quei pezzi che portano un numero su ogni nota per condurre ciascun dito al suo tasto; e non so quale avo romantico risvegliandosi in qualche parte di me si mostrava curioso di sapere se la copertina s’ornasse d’una gondola nera o d’un salice piangente o d’un’arpa ossianica in litografia e se il titolo fosse: «Il sospiro dell’Esule» oppure «Il giovine schiavo» oppure «Ultimo giorno di Maria Stuarda».

Un pensiero atroce e puerile mi passò pel cervello: «Se ora getto un grido, tutti i malati si precipitano alle finestre, e mi restano con i loro visi eguali e bucati come i sugheri che pendono dalla sciabica stesa ad asciugare dopo la pésca».

In una finestra senza cortine, dietro il vetro si levò un che di simile a un gesto bianco che scacciasse un moscone o che mi chiamasse. Certo, non altro che un sottil vetro mi separava dalla morte, e quella mano ignota stava per romperlo.

Mi ricordai che un mio cugino a Nizza ebbe la ventura d’essere meravigliosamente amato per tutto un pomeriggio, fino alla sera, da una canonichessa di Cracovia, che poi spirò nella notte.

Ma la porta della mia donna eletta e perduta era chiusa; e nel piccolo giardino una serva in cuffia e in zoccoli insaponava un can barbone color castagno che pareva stingere sotto la schiuma come fosse di cioccolata, mentre l’acqua sporca colava giù per la viottola nella strada, verso me, simile a una mano deforme che palpasse in terra e s’allungasse e s’allargasse cercando qualcosa che io avessi perduta.

Non sapevo che.

M’aspettavo che qualcuno di dietro mi dicesse con zelo: «Signore, guardi, si volti; ha perduto la tal cosa». Ma nessuno fiatò; né quella mano colante si levò a restituirmi la cosa: seguitò a palpare più lontano, fino al rigagnolo, disturbando un conciliabolo di bruchi radunati sotto una specie di canavaccio che poteva somigliare tanto a una spoglia di serpe quanto alle cellette d’un favo votato e disseccato.

Un carrozzino a forma di cesta intanto mi veniva incontro su tre ruote, sospinto da un uomo baffuto e brizzolato che compieva quell’officio con la dignità propria dei reduci dalle patrie battaglie e dei salvatori di professione addetti agli annegamenti e agli incendii. Una vecchia signora v’era distesa, che nel suo aspetto di moribonda serbava non so che luccichìo di furore in due pupille ostili all’Universo, sporgenti in sommo di due borse grinze che ricordavano la ferocia del polpo legato al suo triste sacco e non si sapeva per qual mai accidente mancassero degli otto tentoni guerniti di ventose. A due passi da me il carrozzino s’arrestò così inaspettatamente che sobbalzai.

Una riga di bruchi attraversava la strada; e il degno spingitore – chi sa per qual movimento di pietà, di ribrezzo o di superstizionecercava un modo ingegnoso d’evitare la strage. Com’egli di dietro pontava su l’orlo della cesta perché la ruota davanti si sollevasse, la vecchia sentendosi sballottare ritrovò tutti i suoi spiriti per schizzare contro il gaglioffo l’acredine dei suoi due polpi senza tentoni. La ruota ricadde e tagliò il lungo budello villoso e molle. Le altre due ruote e le due scarpe seguaci compirono il tagliamento.

Per disgusto volgendomi, vidi dietro una palizzata un ragazzo che rideva da due minuti occhi porcini affondati in una faccia enorme e lustra sul punto di scoppiare come se dalla nuca forata qualcuno seguitasse ad insaccarvi sugna e carne pesta.

La carogna brulicante d’un can bastardo in un immondezzaio non è spettacolo quasi ricreativo al confronto di certe apparizioni della bruttezza umana vestita di panni?

Una gran folata di vento mi passò sul capo: uno di quei fiati subitanei che sembrano venire dal miracoloso confine d’un’altra vita non conoscibile se non talora indistintamente per certi baleni del ricordo o bagliori dell’ansia, quando lo spirito, forse memore, forse presago, si dibatte invano per sottrarsi alle abitudini, alle manie, alle bugie, alle smorfie, alle paure, alle infezioni senza numero ond’è composta la nostra vita.

Il pòlline pareva fumigare dai rami scossi e dorare di sé la nuvola dilacerata che mi lasciò scorgere d’un tratto il più angelico tra i visi dell’aria per mezzo a due lembi simili a due bende di lino spolverate da quell’oro silvano.

E, prima di udire la nota inesperta di un usignuolo novizio, sentii che il pino al passaggio del soffio si gonfiava di musica, dal pedale alla vetta, come uno strumento a fiato.

E bastò quella nota gracile perché tutto si mutasse.


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