Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
Lettura del testo

La Leda senza cigno

4

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

4. Allora m’affrettai verso la città, pensando che forse la musica era per interpretare l’enigma di tutte quelle figure introdotte in me da non so che senso crudele aggiunto alla vista normale.

Un giovine sonatore di cembalo, escito dalla Schola Cantorum, educato alla grazia e alla forza degli antichi cembalisti italiani, mi aveva scritto con fiera gentilezza che nel suo concerto di quel giorno avrebbe sonato per me solo.

Ottima cautela, del resto, perché, entrando nel Casino, m’accorsi come la più gran parte dei porci paesanimore bibliconon fosse stata attratta dalle margherite.

Gli uditori erano scarsissimi nella vasta sala tutta senza risparmio dipinta in quello stile turchesco che ha la virtù d’infiammare la fantasia dei sottuffiziali nei parlatorii dei bordelli. Non mancava se non il profumo delle famose pastiglie dette del Serraglio. L’Euterpe locale, donna ossuta e brusca, posta a guida d’ogni raro uditore verso la sua seggiola, cacciando di tratto in tratto la mano nella tasca del grembiule faceva sperare che fosse per prendere una di quelle pillole odorifere e per abbruciarla nel polito scodellino delle mance; ma ogni volta il gesto era seguìto dalla delusione.

S’udì scrosciare un nuovo rovescio su la vetrata del soffitto; ed ecco, lo spirito agile dell’acqua parve penetrar nell’ombra squallida, con non so che di fragranza terrestre di gioia.

Le pareti s’apersero; la gran carcassa di ferro, di legname, di stucco e di vernice fu portata via da un sol colpo di vento, quasi fosse un mucchietto d’aghi di pino su la spiaggia battuta dall’Atlantico.

Chiare fonti repentine scoppiarono da ogni parte come in quel luogo quieto del barco ove l’ospite con un sorriso misterioso conduce gli invitati senza sospetto e non visto volge la chiave nascosta nella faretra d’un Cupìdo per muovere i giochi e i tradimenti dell’acqua.

Su dall’erba rasa, di tra i cespugli simmetrici, di tra i bossi lungh’esse le terrazze e le scale, dalle cupole dei tempietti e dalle arcate dei passeggiatoi, da ogni parte i getti spicciano sprizzano bàlzano schioccano perseguono percuotono formidabili come nell’imboscata le spade gli stocchi le picche.

Dame e galanti strillano ridono corrono si schivano si salvano.

Ma in ogni rifugio, in ogni nascondiglio è l’insidia della fresca persecutrice; ecco uno schizzo obliquo nella nuca, nell’orecchio, tra le spalle; ecco una polla bassa che suona sotto il verdugale la sparpaglia, ne fa quasi un fiocco della sua spuma.

Amarilli fuggendo inciampica in un cespo di rose, cadendo bocconi le sfoglia e si punge. La malizia degli zampilli l’assale, come uno stormo di gnomi trasparenti, e saccheggia la sua leggiadria inerme. Una piuma, un velo, un nastro, un nodo d’amore, un neo di taffetà, un pettine di scaglia, una scarpetta di tela d’oro, ogni spoglia leggera danza in cima d’ogni zampillo come tal uovo forato e votato; e anche una foglia verde, un petalo bianco, una spina bruna.

«Aita! Aita!» Il cavalier Palamede non s’indugia, non si volge, non ode; se la a gambe con gran tintinnio di ciondoli, con la coda di traverso, con le calze appiccicate alle insigni polpe, con in mano il fodero floscio dello spadino smarrito.

Tutti e tutte fuggono strillando, soffiando, lungo le spalliere di càrpini, verso la gradinata di marmo carnicino, come un branco misto di paperi e di cigni cacciato fuor dal suo laghetto da uno spavento improvviso.

Già si credono in salvo e si scrollano le fuggitive, quando le piccole sfingi di marmo carnicino, ben pettinate e savie come damigelle di compagnia, riposanti su due branche dagli ugnòli inoffensivi, prendono a soffiar dalle bocche senza enigma larghi ventagli d’acqua che s’incrociano per tutta la scala.

Ricomincia la fuga venusta; e la scala sembra che si prolunghi come quella di Giacobbe, verso il cielo soave d’occidente ove le spole delle rondini tessono il velo violetto della Malinconia.

Ed ecco la prima collana di perle si rompe sgranellandosi: gli àcini ruzzolano giù per i gradini lisci e rosei che l’acqua discende in minuscole cascate.

Si rompe la seconda (di sette fili?); si rompe la terza (di ventun filo?) e un’altra, e un’altra ancóra, senza novero.

Le perle si moltiplicano, simulano una grandine mite, scorrono per ogni verso, rilucono, risonano, rimbalzano, si mescolano ai rivoli, ora sembrano le bolle preziose dell’acqua, ora le gocciole della bellezza grondante.

E, come cessano le sfingi di soffiare, i pavoni appollaiati nei càrpini si levano con uno strido; vengono su la strada come attratti dal becchime inatteso; inseguono i grani trascinando sul marmo umido i loro chiusi flabelli.

Ed ecco, chi sa donde, uno stuolo soffice di gatti d’Angora, e bianchi come la panna e grigi come il fumo, dagli occhi rossi, dagli occhi cilestri.

Ed ecco, chi sa donde, uno stuolo di bertucce nere e lustre come il giaietto, dalle manine pallide e grinzose, con un campanello d’oro alla coda.

E i mici e le monne inseguono le perle sonore, le fermano, le afferrano, se le mandano e rimandano, scherzando, ruzzando, rissando, con atti con gesti con cenni di grazia sempre facile e nuova.

E lassù le collane si spezzano, si sfilano, si sgranellano ancóra, quasi che per prodigio lassù il riso carnale della Giovinezza si cangi in quei disciolti monili trascorrenti e irrecuperabili. (Nel rosaio, laggiù, Amarilli ha perduto i sensi? o ha reso l’anima?)

Erano le sonate di Domenico Scarlatti.


Il giovine sonatore aveva il viso raso angoloso e sparso di qualche neo irsuto alla Franz Liszt, ma per l’arte mirabile delle sue dita e dei suoi spiriti si rivelava un vero «maestro al cembalo» degno del Settecento e del divino Napoletano.

Il vigore, l’ardire, l’eleganza, l’allegrezza, la franchezza, la volubilità, la voluttà di quella musica rinnovavano e rinfrescavano a miracolo in me il senso della vita. Ciascuna sonata, con l’unico suo tema condotto sopra un movimento diviso in due parti, pareva disegnare ogni volta la linea breve d’una perfezione sempre diversa e variare per modulazioni imprevedute l’energia del più limpido elemento.

In un intervallo, quando le mie palpebre erano ancóra abbassate sopra una delle mie imaginazioni incantevoli, mi giunse in un fruscìo tenue un profumo di donna simile all’odore che si parte da un cespuglio scosso; cosicché al primo attimo credetti di non esser turbato se non dal mio medesimo sogno. Amarilli?

Ma, volgendomi, vidi una giovine signora che stava per sedersi nella sedia accanto alla mia; e nel primo aspetto notai la qualità de’ suoi occhi che pareva non le servissero a dirigersi. Di sùbito il mondo creato in me da quella musica crollò e si dissipò, come se mi fosse caduta di mano una di quelle sfere cristalline che figurano l’orbe terraqueo nella palma d’un angelo inglese della Creazione. Gli zampilli cessarono di stoccheggiare, le collane cessarono di sfilarsi. L’anima, escita magicamente di sé stessa, balzò indietro di più secoli.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL