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Al Senatore Innocenzo Cappa
in Pescara
penso che oggi in Pescara, nella mia città natale e fatale – onde appresi l’amore del rischio e della musica –, nessuno più legittimamente e più schiettamente di me possa darti il «Benvenuto». Non soltanto la mia infanzia e la mia puerizia ma tutte le mie età vivono in ogni pietra, in ogni mattone, in ogni fil d’erba, in ogni ago di pino.
Dico: «Tu sii ’l benvenuto.» E ti accolgo dal limitare di quella nova Chiesa che contiene una Cappella dedicata alla mia madre.
È ammirabile questo vóto di un popolo intiero.
Ero arso di fatica e di passione. Il generale Cadorna volle darmi, egli stesso e solo, l’annunzio funebre; e mi lasciò andare con la mia febbre attraverso la neve. La febbre e il dolore mi premunivano contro ogni evento. Giunto dopo tre giorni, vidi la salma intatta, immune da qualunque indizio di morte corporale: raggiante di una bellezza che fino a oggi non ho potuto significare, e che forse non saprò dir mai. Ella mi rivelava in sé la cima del mio spirito; quasi senza carne, ella mi mostrava i lineamenti più segreti della mia aspirazione incorrotta.
Dopo cinque giorni, nella bara scoperta, dinanzi al suo popolo, ella era tuttora una illibata imagine, una illesa virtù. Santa la credette il popolo, nella povera chiesa cadente; con una fede che non aveva più lacrime perché pareva a poco a poco bearsi. Le ultime lacrime ch’io vidi rilucevano come le cose indistinte che cambiano di luce; né le ho mai dimenticate: le vedo ancóra.
Amico mio, ora tu sei per parlare di un silenzioso mistero. Credo che dopo di te parlerà la grande musica.
Tra i miei pensieri notturni scritti stanotte è questo: «Ogni musica profonda piange un bene perduto; e nel tempo medesimo lo riacquista.»
È anche questo: «Consólati. Alcuno incantamento, sciagura alcuna non potrà separar da te la tua musica.»
Tu sii ’l benvenuto. Io son qui.