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8. Ella era tutta così fasciata nella squisitezza di quella moda che allora sembrava apprestare le donne per giacersi comodamente dentro le lunghe cassette mortuarie delle principesse faraoniche. Su la sua sedia non occupava più d’aria che non ne contenga un di quei sepolcri egizii di legno dipinto. Ma, pur a traverso la più recente eleganza, dalla linea che si generava nella ondulazione della sua guancia ella era per me disegnata sino ai piedi quale gli artisti devono imaginarsi l’antica Leda dell’Eurota.
E ripensai a quella Leda di Leonardo, che Cassiano del Pozzo, l’amico del Pussino, poté tuttavia vedere a Fontanabeliò nel 1625 e ch’io mi sogno sempre di ritrovare in qualche maniera inverosimile.
– Beethoven? – dissi a bassa voce, sorpreso dall’accento della musica che riudivo dopo l’intervallo indefinito del mio silenzio distratto.
Per una curiosità spontanea, la signora guardò nel programma che aveva sul manicotto e, come sollecitata dalla mia attitudine di attesa, disse:
– Ferdinando Turini.
Aveva proferito quel nome italiano con una timidezza infantile e quasi leziosa accompagnata da un rossore che pareva cancellare la potenza della sua maschera come quel succo vermiglio di cui si tingevano il volto triste le vergini dell’Apulia disponendosi ad abbracciare la statua funebre di Cassandra.
– Che pensare? – dissi, felice del pretesto, col cuore palpitante. – Aveva egli avuto conoscenza del primo stile beethoveniano? Non so, veramente. Se potessimo sapere che l’ignorò, quanto valore originale e significativo avrebbe per noi questa Sonata in re bemolle!
M’accorsi della nativa e profonda indifferenza del suo spirito per questo genere di sottigliezze e di problemi, come con una sola nota di saggio un cantore s’accerta della sordità di un luogo chiuso. I suoi occhi tra gli orli precisi delle palpebre ridivennero impenetrabili. Per istinto mi chinai un poco verso di lei, sul margine del suo segreto, ma smarritamente, destituito di quella virtù che nei primi attimi m’aveva rivelato in lei una massa di oscura miseria.
Il suo profumo dissolveva la forza della mia indagine: e ora io la guardavo come chi guardi non so che ultima cosa per la quale egli abbia fatto non so che lungo viaggio. Un flutto di vita remota, simile a quel fiato subitaneo che avevo udito spirare sul mio capo e sul pino, sopravveniva a travolgermi e a sommergermi. Mi pareva che una necessità patetica fosse sospesa su me, e ch’io fossi già disposto a quella specie di follia arteficiata onde si compone l’incanto che precede la passione.
Infatti consideravo ogni particolarità sotto una luce indefinibile che pareva già inviluppata di passato, come qualcuno che osservi e avvolga poi con estrema cura oggetti da riporre, i quali sieno per divenirgli preziosi ricordi dond’ei creda trarre una ebrezza certa quando gli accadrà di riprenderli in mano. Cosicché il passato e il futuro convenivano in quel mio sentimento composto, e il presente non era se non una sorta di levame.
Le parlavo dentro di me come in un giorno a venire: «Tutto m’è chiaro nella memoria. Ti chinasti un poco innanzi come per meglio ricevere la musica. Pareva non ascoltassi con l’orecchio che coprivano i capelli ma col labbro gonfiato, come certi fanciulli quando una favola li rapisce. Tenevi la mano destra nel manicotto. Due volte, avendola messa fuori, la ricacciasti dentro con una strana fretta come per impedire che qualcosa ne cadesse. Il guanto era infilato nel polso ma la mano era nuda, escita dalla fenditura, e la spoglia di pelle penzolava sul dorso serbando la forma delle dita vive. Notai lungo il pollice un segno impresso, simile a una leggera ammaccatura prodotta dal contatto di non so che durezza…».
Non credo ch’ella ascoltasse veramente la sonata italiana. Mi pareva che la sua sensibilità musicale fosse molto scarsa.