Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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11. Ella ora guardandomi restringeva un poco quelle palpebre che pur m’eran parse ferme come nelle statue arcaiche le gronde di bronzo rilevate intorno al cavo dell’orbita. in esame d’una bestia da mercanteggiare non ebbe mai una qualità di sguardo più fredda e accorta. Ma mi sembrava che in fondo alle sue pupille l’esame luccicasse come uno strumento micidiale da cui fossi per esser leso. Ella non celava nel dolce manicotto color di perla se non una sola mano, quella nudata; e, certo, doveva con quella tenere l’arme piccola per assicurarsi che non cadesse. Ma il raggio de’ suoi occhi era molto più pericoloso. Non so perché, mi sentivo più fragile, più caduco, angosciato da un’apprensione non dissimile a quella che si prova quando un medico ci palpa per scoprire il nostro punto debole. E (questo riferisco con assoluta veracità, se pur possa in séguito sembrar troppo singolare) mi passò nel cervello un’imagine involontaria, risorta forse da un episodio della mia esistenza obliato: l’imagine bizzarra e lugubre del dottore d’una Società d’assicurazione, in atto di tastare e d’ascoltare il cliente nello stomaco, nel fegato, nel polmone, nel cuore, per un calcolo di durata approssimativo. Sentii che le arti del mio spirito non potevano prevalere contro quella creatura a cui, come nel mito, il divino doveva appressarsi sotto la specie animale.

Non fui, sotto il suo sguardo estimatore, se non un corpo miserabile, logorato dall’eccesso, disgregato dall’inquietudine, di continuo minacciato dallo schianto che segue ogni estrema tensione. «Sì, certo;» voleva rispondere a quell’indagine la mia ironia «è facile finirmi. Tutto il mio vigore è concentrato alla base del mio cranio. Basterebbe un piccolo colpo secco, o un forellino non più grande di quello che la dònnola fa nel capo d’un pollo…»

Or da quale linea della sua faccia moveva verso di me quell’aura delittuosa? Perché in quel punto ella stessa mi rivelava quel che v’era di nocivo e di distruttivo nel suo istinto profondo?

Tuttavia non l’agguato soltanto era in lei ma anche un grido indistinto che, non giungendo ancóra al mio orecchio, mi toccava già l’anima.

Bisogna andare – ella disse volgendosi, con una fretta subitanea, per quello squallido labirinto di seggiole.

Ora, come al primo entrare, pareva che gli occhi non le servissero a dirigersi. Urtata dalle sue gambe una seggiola cadde, e poi un’altra ancóra. Ella seguitava ad avanzare come una cieca, trovandosi sempre dinanzi le lunghe file senza passaggi. Bisognava rovesciarle per aprirsi un varco. Era come in certi sogni affannosi e ridicoli.

Non so veramente se la sala si fosse oscurata; però m’aveva l’aria di una brutta chiesa piena d’echi nell’ufficio delle Tenebre. E la custode ossuta accorreva verso noi furibonda, con lo zelo d’un sacrestano contro i profanatori. Una moneta tesa la placò e le mosse una ilarità inestinguibile; ché, come la signora rideva d’un riso falso, ella per compiacenza la imitava senza freno, rialzando le seggiole e persuadendo a noi e a sé stessa che quell’avventura era la più buffa del mondo.

Fuori, non pioveva. Un vento fresco, pregno di ragia come quell’acqua piovana che riempie i vaselli appesi ai pini, mi lavò la faccia. La cresta delle nuvole a ponente era come una schiuma abbagliante.

Qualcosa d’argenteo, quasi un riflesso di madreperla, guizzò negli occhi della sconosciuta. Il primo quarto della luna pendeva dal cielo verdigno come se la fata Morgana vi rispecchiasse il pallore della Landa.

Avete una vettura per rientrare? – mi domandò ella, con una esitazione che la mia timidezza non seppe cogliere.

Conosceva dunque la mia via e me?

Rientrerò a piedirisposi.

Si guardava, considerando in sé cose ch’io non sapevo vedere e che nondimeno mi parevano influire su l’orizzonte e caricarlo d’una forza simile a quella che lampeggia senza tuono in certe sere d’estate quando tutta la nostra anima sta per ispiccarsi in faville dall’apice del nostro cuore, come una fiamma investita dal nembo. Il suo viso era alterato da un tremito muscolare che non potevo più reggere, quasi trasposto nella commessura delle mie mascelle come quello spasimo che i medici chiamano trisma.

La mia coscienza era come il mozzo d’una ruota velocissima.

Buona sera – allora disse ella movendosi verso l’automobile coi piccoli passi lesti a cui la costringeva la stretta gonna.

Che ironia patetica nel contrasto di quella volontà oscura impedita da quelle pastoie eleganti!

Ci rivedremo?

La mano armata restò sempre nascosta nella pelliccia molle.

Chi sa!


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