Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

17

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17. Tesi l’orecchio a un rumore singolare, non senza sgomento; ché pareva ora prossimo ora lontano, ora nell’aria ora sotterra, simile al battere cadenzato di due stecche l’una contro l’altra, simile al tintinno che nel lavoro di maglia fanno i ferri urtandosi. Era il pastore?

Era certo il pastore immortale della Landa, su i suoi trampoli, nell’ombra, poggiato a un pino scaglioso, con ai piedi il suo cane selvaggio dagli occhi palpitanti come i fuochi delle lucciole. Era vestito di foglie? aveva per barba al mento uno sciame sospeso? dall’opra assidua delle sue dita escivano pannocchie di corimbi?

La forma e la metamorfosi m’eran così vive nell’imaginazione che, se avessi spenta la lanterna, avrei certo creduto vedere con le pupille del mio capo e l’uomo e il semidio.

Tesi ancóra l’orecchio, inquieto; ché il battito strano continuava senza intervallo. Seguendo il suono, entrai nell’ombra con un sentimento indicibile, come se lasciando il cerchio del chiarore escissi di me stesso per assumere non so che nuova natura notturna e udissi battere il mio proprio polso nella sostanza che stava per incorporarmi.

Non era se non il vento nelle dure foglie lanceolate d’una pianta gigliacea che si moltiplica per le sabbie.

E dentro me non era se non il mostro oscuro dell’amore, non ancor domato, non ancor legato, che ancóra si mutava e rimutava in mille forme, mi tentava e m’ingannava per mille figure, mi travagliava e rinnovellava con mille arti.

Come in me, così fuori di me tutto era travaglio e mutamento, angoscia e smania.

Camminavo alla ventura, tenendo giù la lanterna sospesa e oscillante a rischiarare i lembi d’un mondo meraviglioso come quello che il palombaro vede per i fori dello scafandro. Come nel fondo del mare, la vita vegetale e la vita animale avevano i medesimi aspetti. I cespugli erano irti d’orrore, una voracità vigile protendeva le fronde. E m’incalzava la sorte di colui che, avendo intraveduto alla soglia dell’antro l’ombra della sirena, non seppe più ritornare a galla.

Dov’era in quel punto la donna del mito? I fanali, davanti alle sue ruote veloci, rischiaravano laggiù la strada deserta, la carreggiata fangosa, i mucchi di selci, il ciglio dei fossi? Era ella tutta rotta dal suo dolore segreto, come quel marmo che fu ricomposto?

Subitamente mi ripiombò sul cuore la severa tristezza che m’aveva sopraffatto quando, coperta con la mano la vista, m’ero messo in ascolto per cogliere il suo respiro di dalla musica. In un attimo, quella specie di delirio silvano si dissipò. Mi sentii sfinito come quando la febbre decade. Il passo nella sabbia mi divenne penoso. Nulla in me rimaneva che non fosse umano, malsano, miserabile.

Ritrovai la via della consuetudine.

Un’afa tetra snervava l’elasticità dell’aria. Dal nuvolato cominciava a cadere qualche gocciola quasi tiepida. S’udiva crescere a poco a poco il crepitìo sopra le macchie. Un assiuolo si lagnò nel folto: e parve che mi ricordasse la parola scritta nel libro segreto della mia memoria: «Si potrebbe piangere…».

Prima vidi, pei vetri d’una finestra, ardere nella casa una lampada rosea. Il cuore mi batteva non so perché, quasi di paura. In prossimità del cancello, mentre mi chinavo a spegnere la lanterna, fui chiamato per nome da una voce ansiosa e roca, da una voce di sventura che mi rimescolò tutte le vene. M’appressai, chiamai anch’io per nome. Travidi la mia amica dietro il cancello, agitata, tutta bianca, che con le due braccia nude scoteva le sbarre sforzandosi d’aprire.

Che hai? Che accade?

Le sue mani passarono a traverso e mi toccarono, tremanti, già molli di pioggia, come per sentirmi vivo.

Spingi! – disse ella in angoscia. – Spingi forte! Non posso aprire.

Spinsi con la spalla, ma il cancello resistette. All’umidità il legno nuovo s’era rigonfiato, e la pittura fresca aveva saldato la commettitura. Cercai più volte di sforzare, ma inutilmente. Le bolle di gomma schiacciate m’impiastravano le dita.

Bisogna chiamare i domesticiconsigliai, tentando di ridere come conveniva.

No, no – fece ella, impaziente e stravolta, con una voce già soffocata dal pianto, aggrappandosi di nuovo alle sbarre. – Prova, prova ancóra!

Provai. Le sue mani di nuovo passarono a traverso, mi palparono il viso smarritamente.

Che hai fatto? Che hai fatto?

La pioggia cresceva, scrosciava. L’assiuolo non cessava di lagnarsi. Tutta la Landa pareva oppressa da un’ambascia inesplicabile.


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