Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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20. Gli onori del cembalo erano tuttavia per Domenico Scarlatti. La Sonata in la maggiore, quasi fosse una formula magica, risollevò dal passato intera e viva l’ora misteriosa come se la sconosciuta venisse di nuovo a sedermisi accanto e di nuovo con tutto il mio acume io mi chinassi all’orlo del suo segreto.

Sebbene gli uditori fossero in più gran numero, la sedia vicina era rimasta vuota.

Scorsi un’ombra che s’appressava lungo la fila.

La mia inquietudine cresceva d’attimo in attimo così appassionatamente, che mi volsi, con l’anima negli occhi e col cuore balzante alla gola, come per ricevere d’un tratto quella bellezza che in tutti i miei sensi aveva già il suo luogo. Due magre mani dalle dita a spatola si tendevano verso di me, e il mio nome era proferito da una voce non obliata.

Riconobbi sùbito un amico mio, del quale da qualche tempo non avevo più notizie: un musicista di molto valore e di fama non volgare, che più d’una volta era stato ospite del triste Quartiere d’inverno nell’alternativa del meglio e del peggio.

Tu qui? da quanto tempo?

Ho passato qui tutto l’inverno, con mia madre, non bene.

Ma hai un ottimo aspetto.

Per mordere il dolore gli era rimasta una mascella scarna da cui il rasoio pareva avesse portato via brani di pelle morta sostituiti dall’unto e dal lustro della glicerina.

No. Sono bruciato.

I pomelli delle gote erano rossi e venati come le foglie della vite vergine su per un muro in autunno, non senza qualche rimasuglio di verdiccio e qualche traccia d’allumacatura. Avevo per la sua ruina, ahimè, le stesse pupille implacabili che avrebbero notato la più lieve onda nella seta manosa di certi capelli o nelle gronde di certe palpebre il radore d’un sol ciglio caduto.

Bruciato da che?

Egli fece un gesto d’incuranza quasi brutale, ma mi fissò con uno di quegli sguardi che da uomo a uomo scendono dentro e sembrano cercare nel cuore un punto di sostegno, il luogo d’una simpatia virile.

Anche i suoi occhi ora m’apparivano come privi della loro buccia, come messi a contatto immediato con la crudità esterna, come se fossero i vertici scoperti della sua sensibilità e non potessero da nessun collirio essere leniti. Il suo sguardo mi doleva.

Rimani ancóra? – gli chiesi. – Vuoi che ci vediamo?

Parto fra due o tre giorni, sabato forse. Mia madre mi strappa via.

Aveva nell’alito l’odore del vino di Porto, ma i denti bianchi lasciavano ancóra alla sua bocca un che di giovenile.

Pativo la sua umanità con una forza singolare, come se fossi stato per qualche tempo il suo infermiere e avessi tollerato l’esalazione de’ suoi sudori e conoscessi a una a una le sue miserie e le sue manie.

E già attendevo anche da lui l’inatteso.

Vieni a colazione da me domani. Ti manderò la mia vettura.

Sì, vengo.

E mi prese una mano e me la strinse tra le sue dita convulse. Come incominciava la Sonata in fa minore, tacemmo. Mi parve che la musica non ci ravvicinasse ma ci separasse, perché pensai ch’egli dovesse sentirla da artefice, in un modo assai diverso. Su la sedia non conteneva la sua irrequietezza, e me la comunicava.

Che hai? Chi cerchi?


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