Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

22

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22. Un soffio di creazione mostruosa alitava tra le pareti fitte di volumi, ove la mia anima era vibrante come quell’aria che chiudono i legni secchi d’un violino ben costrutto. Ciò che dei libri immortali si mescola alla fluidità della vita nel silenzio, l’eternità che è fissa nei frammenti patetici dei capolavori, il mito che appesantisce su una tempia invisibile il fiore vinato del giacinto, lo splendore limpido del vino simile alla presenza corporea del dio che discioglie, un pane, un frutto, un coltello, un lembo di carne trasmutato dal fuoco, l’orlo d’un bicchiere toccato dalla grazia d’un raggio, ogni cosa innanzi a me e intorno a me esprimeva me a me stesso. Pieno di significati, giocavo con l’amore e con la morte. Con la figura del mio ospite, con la figura della donna assente e con la mia sobria ebrietà componevo i quadri successivi d’una nuova Danza macabra.

Chi è quello? – disse egli, volgendosi verso il camino.

Era il calco intero d’uno degli otto incappati che portano la pietra sepolcrale nel monumento del Gran Siniscalco di Borgogna. Stava presso l’alare, curvo ma con la spalla senza carico, nascosto il volto sotto il cappuccio, scoperto una sola mano dal pollice lungo.

Veramentedisse – non ti sei fatta una casa allegra.

E, fissando lo sguardo torbido verso qualcosa che vedeva egli solo, s’attristò come fa l’anima quando si raggomitola sul sacco riempiuto.

Vieni, vieni – dissi all’improvviso levandomi e prendendolo per un braccio familiarmente, con una gaiezza audace. – Raccontami i tuoi nuovi amori.

Quali amori?

T’invidio. È una magnifica belva.

Lo feci sedere in una poltrona comoda, mentre il domestico recava i liquori e le sigarette. Io mi misi all’ombra d’uno scaffale, come in agguato.

Egli trasse il suo tabacco misto d’oppio da una sua scatola di bossolo e lo rotolò nella carta tra l’indice e il pollice ingialliti come dalla tintura di iodio. Affettava quel sorriso vano che gli conoscevo bene, quel sorriso di donnaiuolo disgustato che non fa differenza fra tresca e tresca; ma una delle sue deboli gambe tremolando sul tacco ed egli guardandosi la punta della scarpa, mi risorse nella memoria l’imagine d’un contadino che avevo veduto in un campo guardare tranquillo il suo piede scalzo ove una testa di vipera pareva incastrata per sempre come una sesta unghia.

Perché la chiami belva? – disse. – Tu sai la storia?

Non so nulla. Chi è?

Egli la bruttò con una parola vile; e poi biasciò come se la lingua gli si fosse disseccata.

L’ami dunque?

Egli parlò, pieno di rancore, di sgomento, di vendetta e d’incantesimo, con qualcosa d’intollerabile come la vista di un’agonia, con qualcosa di falso come il gioco di un istrione, a volta a volta miserando e odioso, tragico e ridevole.


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