Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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25. Or ecco che, all’improvviso, tal bellezza m’appariva appresa alla morte come un di quei cammei intagliati nella vena bianca di un’agata scura. Il rilievo ne divenne così fiero che tutto il resto si dissipò. Udivo il mio cuore battere con tanta violenza che mi stupivo non l’udisse il mio amico. Ma egli doveva essere assordato dal suo proprio tumulto, su cui di tratto in tratto versava un sorso ardente.

Perché? – gli chiesi. – Perché ne parla con arte; perché, come tante altre donne, ne fa una graziosa millanteria…

Due anni fa, in un periodo d’insofferenza e di furore, tentava la morte quasi ogni giorno. Aveva uno di quei canotti leggeri da corsa che si vedono alle gare di Monaco, munito d’un motore a sedici cilindri, donatole da un ammiratore argentino. Un’anima dannata di meccanico l’accompagnava, a qualunque ora del giorno o della notte, quando col maledetto vento di ponente il Bacino era in tempesta e il passo dell’Oceano diveniva impraticabile. Con prodigi d’astuzia, sfuggiva a ogni attenzione e a ogni impedimento. Quasi sempre tornava nel punto in cui si perdeva la speranza di vederla riapparire. Per ore ed ore l’onda aveva schiumeggiato su lei come contro una figura di prua. Chi la baciò, dové sentire per lungo tempo il sapore del sale su quelle labbra screpolate.

Ben la vedevo, quasi avessi dentro di me l’approdo, coperta dalla sua cappa impermeabile, con la sua faccia dentro il camauro d’incerato diafana come la lampada della medusa natante. E non l’avevo attesa se non per ripartire con lei nel crepuscolo.


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