Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

26

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26. – In una spiaggia galante di Normandia, poco dopo il suo divorzio, fu assiduamente assediata da un giovane giocatore di «polo» che le faceva montare i suoi cavalli deliziosi. Senza nulla concedergli, seppe renderlo così folle di passione ch’egli le offrì di sposarla. Ella ne rise, e lo torturò con tanta raffinatezza che un giorno egli trovò il coraggio di partire e forse andò a giocare il suo gioco su qualche buon terreno inglese dell’India. Ella non lo amava: non s’era abituata a lui se non come a uno schiavo da servire a invenzioni e ad esperienze di supplizii; ma amava teneramente uno di quei cavalli da «polo», un saurello che portava il nome shakespeariano di Petruchio. Quando seppe della partenza, la sera stessa si avvelenò con qualche pastiglia di sublimato corrosivo; e rimase per giorni e giorni tra la vita e la morte. Dal letto di dolore non faceva che tendere la palma della mano, ripetendo il gesto usato nell’offrire lo zucchero al suo Petruchio.

Ora, di sotto ai miei cigli socchiusi, vedevo quella sua mano nuda, tratta fuori del guanto, quella mano lunga e robusta dalle nocche asciutte e polite sfiorare il labbro esiguo d’uno dei piccoli cavalli fidiaci che galoppavano nei gessi del Fregio disposti lungo la mia parete. dal manico flessibile agli svelti cavalieri ateniesi, il prato raso ed elastico agli zoccoli delle loro bestie ben raccolte. Vedevo il sole obliquo ferire l’erba grassa di Normandia e un fascio di raggi come una lama d’oro tagliar netto due zampe nervose pontate in terra nell’arresto brusco. Ma il mio cuore di rivale balzava di gioia selvaggia alle parole: «Ella non lo amava».

Or è un anno, di questi giorni appunto ai primi d’aprile, una sera…

Il mio cuore si fermò. Riudivo, dentro di me, cadere le seggiole rovesciate sul pavimento sonoro, laggiù, nell’ombra della sala piena d’echi come una chiesa nell’ufficio delle Tenebre.

Una sera? – feci, per sollecitare la voce che s’era interrotta come se la sopraffacesse la mia ansietà. Rivedevo negli occhi della sconosciuta il riflesso di madreperla, e il suo viso alterato dal tremito indomabile.

Una sera, a Bordeaux, per qualcosa di simile, mentre seduta nell’automobile discuteva con lo zio d’un povero ragazzo che volevano impedirle di rivedere, lasciò partire a un tratto un colpo verso il suo petto, dal revolver nascosto nel manicotto. La palla rasentò il polmone e si conficcò sotto la scapola. Ancóra la vita in pericolo per settimane e settimane, l’orrore d’un letto in una clinica, il pitone desolato al capezzale…

Tutte le apparenze e tutte le divinazioni di quella lontana sera di primavera rifluirono dentro di me con una forza moltiplicata, creando un sentimento ch’era come una forma di dolore immensa ch’io non potessi patire e conoscere tutta quanta se non nel futuro. Non avevo alcun dubbio; nondimeno chiesi:

Che giorno era? Lo sai?

Sì, era il cinque d’aprile.

Per disperazione d’amore?

Una gelosia oscura mi travagliava.


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