Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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27. – Per imaginazione d’amore e per insofferenza della stupida vita. Quel Paolo, il minorenne ch’ella aveva traviato, era il nipote d’un mercante di vino col quale il pitone aveva trattato operazioni d’usura sul denaro di da venire, su la farina del diavolo insomma. Vedi strano gioco! Quasi per rappresaglia contro lo strozzino, ella s’impadronì del ragazzo che non mancava di grazia fisica e d’una certa finezza sentimentale. In poco tempo lo mutò, ne fece una cosa sua, da tenere sul pugno all’obbedienza come uno sparvieretto incappellato. Scoperto il pericolo, i parenti corsero al riparo, prendendo sùbito la misura più efficace. Sequestrarono Paolo, lo trascinarono via, lo nascosero non si sa dove. Questo bastò perché il capriccio esasperato divenisse in lei una specie di furore. Domandò di rivederlo per una volta, di parlargli per l’ultima volta. Non le fu concesso. Si faceva portare quasi ogni sera nella strada dov’era la casa dei parenti, e mandava un messaggio; ma rimaneva delusa. Quella sera a un messaggio imperioso e minaccioso accorse lo zio per tentare di persuaderla alla rinunzia. Ella era nella vettura; egli le parlava dal predellino. Ostinata, ella ripeteva: «Voglio vederlo». Ostinato, l’altro negava. Di sotto alla pelliccia, a un tratto il colpo partì, come per caso. Lo strozzino accompagnò il corpo forato alla clinica. Quando ella rinvenne e poté soffiare qualche parola, supplicò che le lasciassero rivedere Paolo, almeno per un attimo. Inutilmente. La legge dei mercanti fu inesorabile. Solo il pitone rimase accanto al letto bianco, e la primavera contro i vetri della finestra. La palla fu estratta. Le cicatrici…

Ah, vuoi descrivermi le cicatrici?


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