Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

29

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29. La marea, che è femmina, montava verso la duna ispida di giunchi. Tutte le acque tremavano e brillavano sommergendo i banchi di sabbia pallidi e dolci come i corpi dei naufraghi succhiati dalle sirene. S’udiva un mormorìo profondo come dev’esser quello che annunzia la rompente primavera nei paesi di ghiaccio. Il sole declinante lasciava dietro di sé una via splendida per ove pareva dovessero scendere i suoi grandi cavalli bianchi liberati dal giogo. I miti della mia razza venivano a invadere le solitudini senza storia. Il mio spirito era fervido, fertile e fatale come nel principio dell’amore. Il compimento d’una divinazione era prossimo, e l’oracolo del sangue era stato bene interpretato.

Non avevo più volontà di volgermi e di rivedere quel viso distrutto, l’orribile teschio, la dura maschera d’osso a traverso la pelle logora. Qualcosa più forte di me e di quella miseria, ecco, nasceva; ed era per somigliarmi. Uno spirito diceva: «Soltanto esiste quel che ancor non è, e tu vivi del futuro, non ti ricordi se non del futuro». Il mio cuore diceva: «Tutto prendo su me. Ella è senza colpe. L’assolvo. Eccola». Parlava come quel pioppo che stava solo, quella sera, vestito d’argento cangiante, all’angolo di quel giardino. Reduci le apparizioni crepuscolari e notturne mi trapassavano, si dileguavano.

Udii il rumor secco che fece il coperchio del pianoforte sollevato; e non mi volsi ma attesi, rabbrividendo come se la mano si fosse posata su la mia spalla e non su la tastiera.

L’anima dello strumento vibrò come per uno schianto di dolore.


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