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33. Parlavamo. Ciascuno di noi tre aveva l’aria d’ascoltare l’altro e di rispondergli. Ma era come quando in sogno vediamo muovere le labbra dei vivi o dei morti e non udiamo il suono. Si formava un vortice silenzioso con la sostanza fluida di due vite; e la terza vita era simile a uno di quei rottami che sono attratti, aggirati e poi respinti. Tutto era nascosto e tutto era palese, tutto accadeva alla radice dell’anima e all’estremità dei nervi, somigliava all’iniziazione e somigliava alla perdizione. E certo uno di noi era perduto, e forse due erano perduti, e forse tre, come nella canzone greca di Caronte.
– Che fai?
Non rattenni il grido, ma potei smorzarlo, davanti al gesto dell’istinto; ché egli s’era aggrappato al braccio della donna, quasi fuor di sé, supplichevole e pauroso. E nulla fu più triste del modo ond’egli riescendo a dominarsi tentò di dare a quell’atto involontario l’aspetto d’una familiarità innocente.
Ella arrossì, poi si scostò, e si mise a correre verso il canile; dove già i giovani cani tumultuavano. Entrammo insieme, come nella schiuma d’un’ondata che si rompe. L’altro non osò, temendo l’urto; restò di fuori, contro le sbarre.