Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

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36. Tornai verso il canile, come si torna verso il luogo dove si compì un miracolo di vita o d’arte, per rinnovare le domande che restano senza risposta.

I lunghi musi umidi sporgevano di tra le sbarre, e gli occhi scuriti dalla sera guatavano come quelli dei cigni quando si passa lungo l’acqua d’un giardino già invaso dall’ombra e dal sonno.

Entrai; parlai, con quelle voci gutturali che i cani comprendono. Tutti m’erano intorno, imitando su le quattro zampe la cresta del flutto quando forma la voluta o impennandosi come le capre che danzano in memoria dei satiri. Un solo in disparte s’abbandonava a una folle allegrezza, come i cuccioli quando trovano un osso, gettando in aria e riprendendo fra i denti qualcosa che non potevo distinguere. Era appunto il favorito di Leda.

Lo chiamai più volte. Egli cessava di giocare, mi guardava con diffidenza furbesca, esitava per qualche attimo, più sinuoso di un’onda in un disegno giapponese; poi si riallontanava saltabeccando e scambiettando su gli aghi di pino. Un richiamo più severo lo consigliò all’obbedienza. S’accostò gatton gattoni, quasi strisciando, con una grazia disperata; fece gli ultimi passi tutto chino sopra un fianco; poi si rovesciò sul dosso, ai miei piedi, come per svenirsi o per esalare l’ultimo fiato. Ma teneva tuttavia la cosa fra i denti con una forza accorta che la serrava senza romperla.

Che hai? che hai? Lascia vedere.

Annaspava con le zampe in segno di supplicazione. Per forzarlo a lentare, gli misi le dita nella commessura delle mascelle. Così gli tolsi la presa; era un pettine di tartaruga bionda, un piccolo pettine caduto dai capelli di Leda!

Lo sentivo umidiccio di bava. Lo sentivo vivere d’una vita segreta nella mia palma soppesandolo. Non pesava più di una stella marina. Il cane era ancóra disteso, come aspettando il perdono d’un fallo; e tra le frange socchiuse delle lunghe labbra i denti gli splendevano evocando in me «i carati della perfezione».

Non avevo se non un pensiero tormentoso, generato da un’angoscia oscura: tentare di rivederla prima di notte. Il pettine smarrito era un pretesto plausibile. Forse ella era rientrata a casa sua, dopo aver ricondotto l’amico. Pensavo tremando: «Se la trovassi sola! Se potessi parlarle!». Ogni indugio mi pareva favorire non so che potenza nemica e respingere la mia fortuna. L’ansia non può respirare se non nella rapidità.

Saltai su una bicicletta e presi la via, di corsa. Alla prima erta dura non ebbi alcuna pena. Uno strano vigore m’era venuto in tutti i muscoli, e il vento della sera entrava nel mio petto come in un fogliame nuovo. Traversai il Quartiere d’inverno, la città dei malati. Travidi qualche lampada accesa dietro qualche vetro. Mi parve d’indovinare, a destra, prima d’una svolta, la veste argentina del melo rifiorito. La campana sonò su la Cappella. In fondo a un viale arborato, dietro un alto Crocifisso, luccicò il Bacino.


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