Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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La Leda senza cigno

39

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39. Di nuovo la stanchezza mi vinse.

Come la gran luce mattutina mi riscosse, sùbito mi ricordai d’aver promesso un saluto alla madre del mio amico. M’affrettai per non perdere l’ora, e portai meco un mazzo di violette.

S’era levato il vento di ponente in un cielo intrepido, pieno di fecondità, di migrazioni e di ritorni.

«Forse non parte» pensavo, rivedendo la sua bocca amara, riudendo il suo riso stridulo. «Non parte più.»

Ma un altro spirito, ricordandosi dello schianto di dolore che aveva lacerato le fibre dello strumento, mi diceva: «Parte. Se ne va. È vinto».

E io avevo velato dentro di me l’enigma di quell’antica e novella faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte. Attendevo da non so quale orizzonte non so qual messaggio, per disvelarlo e rimirarlo senza paura.

Entrai sotto la tettoia squallida. Il treno era fermo su le rotaie, nero, stupido e massiccio. Sopra un lungo banco erano accumulate certe gabbie di canna piene di polli tramortiti. Il viso d’ogni creatura umana pareva portare un marchio di servitù e d’onta. Il gallo della Landa aveva cantato per costoro.

Camminavo lungo le vetture in cerca del mio amico e di me, quando lo scopersi ripiegato contro la spalla della madre, cèreo, come intorpidito da un narcotico, , con le gambe flosce, con un po’ del bianco degli occhi apparente fra le palpebre mal chiuse. Un gesto della vecchia signora prevenne l’importunità d’ogni mia parola, d’ogni mio atto. Ella si chinò con infinita cautela verso di me, evitando di riscuotere il figlio; e mi bisbigliò:

Stanotte s’è uccisa.



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