Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Al duca Marcello Visconti di Modrone Podestà di Milano nel XVI anniversario del volo su Vienna

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Al duca Marcello Visconti
di Modrone Podestà di Milano
nel XVI anniversario del volo
su Vienna

Mio caro Marcello,

in questa notte d’agosto, or è sedici anni, io solo vegliai con due meccanici prudenti sul mio campo di San Pelagio. Io medesimo con gaia rudezza nel primo albeggiare tirai giù dalle brande i miei giovani compagni che s’indugiavano in un sonno aereo sospesi su Schoenbrunn.

Così per tutte le notti anniversarie la mia malinconia nera seppe osservare la memore veglia.

In questa ora ti scrivo dalla mia officina quasi vasta come il ricovero di San Pelagio con i suoi tramezzi di stuoia e con le sue travature ignude. Ma la scontentezza senile è riscossa da una tanto giovenile inquietudine che sembra voler mettere in moto i miei modelli di elica posati su le scansie e su gli armadii: tanto impaziente che sembra voler rompere con un grido intempestivo il sonno di tutte le squadriglie d’Italia – dunque anche il tuo, o podestà aviatore che hai nome Visconti reggendo la Milano di Leonardo e del Codex atlanticus.

Pur l’altrieri a un fratello minore e maggiore, come direbbe Giovanni Pascoli modesto, io scrivevo:

«Giovedì prossimo, dedicato a san Fermo nel calendario romano, cadrà il decimo sesto anniversario del mio volo sopra Vienna compiuto con una cortese forza da me appresa nel Dialogo di san Gregorio: non per diroccare case e duomi, non per disertare strade e piazze, non per uccidere vecchi femmine e fanciulli.

E di quella cortese forza si ricordò sempre e tuttavia si ricorda la gente di Wolfgang Mozart. Quanto mi piacerebbe di riapparire giovedì mattina tra Santo Stefano e il Graben per confermare la sola parola maschia proferita arditamente contro il Barbaro in tanto incurabile balbuzie europea! Tu sai che quando nel meriggio di agosto ci calammo sul campo di San Pelagio e non c’eravamo ancor liberati de’ nostri calzari e de’ nostri camauri, il Capo ci domandò nel primo calore della riconoscenza: – Che cosa possiamo fare per voi? – Pronti rispondemmo, io e Natale Palli, con un solo cuore: – Mandarci a Berlino.

Più lunga e più difficile impresa, e senza ritorno forse, benché noi avessimo già perfetto il nostro disegno e io avessi già preparato la nostra discesa eventuale nel paese neutro di Danimarca che doveva arrestarci e poteva la domane non accorgersi della nostra fuga a occidente. Ma tentai invano di oppugnare il brusco divieto del Generale Diaz dimostrando come nella guerra, più che in ogni altro sforzo, valesse la legge di iterazione. Rimasi col mio chiuso rancore, che non mancai di esprimere coralmente al Duca della Vittoria poco prima del suo transito. Non sempre invido è il fato: ecco il generosissimo evento che annobilisce e incorona in San Fermo la volontà esemplare…»

Tu Marcellus eris. Le mie eliche, o Marcello, restano inerti come l’atto preclaro della Vergine che si allaccia i sandali.

L’architetto severo del Vittoriale, il combattente ferito di Riva Gian Carlo Maroni ti porta quelle reliquie che già ti avevo recusate pensando che, se giova una esposizione tecnica dell’Ala d’Italia (rileggi il mio discorso di Centocelle), non conviene una mostra della prodezza singolare.

Il forzieretto di ferro a maglia preserva la bandiera inconsùtile, incontextum vexillum, che per onor funebre io portavo legato alla cintola sotto la casacca; e la piccolachiamata carsica da una consuetudine di battagliadove i miei compagni segnarono i loro nomi in fede perpetua. Nel sacchetto di broccato è il reliquiario che rinchiude un’altra custodia ove primamente serbai per me fante e capitano del Veliki alcuni lievi frammenti di una bandiera più antica e più insigne. Il 4 luglio del 1919, quando in Roma studiavo il mio disegno di prendere Fiume, ebbi modo di raccontare l’episodio atroce ai Volontarii di guerra.

Il 5 ottobre del 1916, alla vigilia della prima azione contro il Veliki, mentre in una dolina il colonnello del 78° reggimento di fanteria comentava agli ufficiali l’ordine del giorno che avevo avuto l’onore di stendere, un «trecentocinque» colpì in pieno la baracca uccidendo gran parte del gruppo e maciullando la bandiera.

Dai rimasugli della carne e delle ossa furono sceverate le reliquie sante: i brandelli del drappo, le schegge e i chiodi dell’asta, la lancia contorta. E le reliquie furono raccolte e avviluppate divotamente. E a me fu dato il carico doloroso di portarle alla sede del Comando.

Se avessi tenuto su le mie braccia il corpo esangue di mia madre, se avessi tenuto su le mie ginocchia il corpo straziato di mio figlio, avrei forse potuto domare il tremito della mia vita. Ma di quel tragitto dalla dolina al Vallone, con quel fardello più sensibile del sangue che ribolle e riarde a miracolo nelle teche dei martiri, me ne ricorderò fino alla morte, oltre la morte.

Avevo le schegge confitte nel cuore, i brandelli profondati nella carne come quei pezzi di grigioverde che restavano nelle ferite; e la lancia nel costato.

Sol per quella pena, per quella pietà, per quella divozione, mi sia perdonato quel che in me è ancóra debole e tardo.

Questo io dissi ai Volontarii. Ed eran tra loro alcuni di quei combattenti milanesi che nel settembre del 1925, con una fraternità a me più cara d’ogni altra, vollero offrirmi impresso nell’oro il segno di mutilato consacrandomi «Orbo veggente».

Ora appunto nel mattino del «folle volo», avendo io sempre contro il mio petto la custodia primitiva, come mi volsi al mio pilota per l’ultimo commiato con un atto risolutissimo, sentii nell’atto il vetro spezzarsi frantumarsi e tagliarmi. Stringevo nella mano la fiala del veleno, il rimedio di tutti i mali. S’era fermato d’improvviso il motore su Lubiana. Poi aveva ripreso. E doveva arrestarsi due volte ancóra, su la selva di Ternova, su Grado.

Avverso la malvagia sorte disceso a San Pelagio incolume, mi cercai nel petto la reliquia che mi doleva. E volli poi assicurarla in questo reliquiario; che mi sembra bellissimo nel risanguinare per la stilla del rubino.

Accanto, nel medesimo sacchetto prezioso, è un astuccio da esca per archibugio da principe, cesellato e damaschinato. Serra la fiala del farmaco liberatore. E forse ti racconterò come il Generale Cadorna cattolicissimo, avuta notizia di questo mio espediente per non cader vivo nelle mani del nemico, avversasse fino all’estremo la mia impresa.

Troverai nel forziere il mio astuccio da sigarette distinto dell’ibis volante, che era l’insegna del mio motore fido e infido. Ibis redibis. Troverai la bussola strenua che mi condusse in tutti i cieli combattuti, spesso impazzando senza riescire a ingannarmi. Per suprema ducit.

Troverai il libretto di Catarina da Siena folto di segni e di note simili a baleni dello spirito o a rivelazioni dell’ignoto o a divinazioni dell’angoscia.

Troverai infine una specie di portentoso decreto terrestre e marino, una specie di agata fatale ove son figurate con una esattezza di portolano le isole dell’Arcipelago greco, con una zona della Romania, con una banda dell’Ellesponto, con tutte le terre in signoria della Serenissima per diritto divino e per potenza navale.

Sùbito dopo il mio ritorno da Vienna io m’ebbi il bel cuoio veneziano col Leone del Libro chiuso da un donatore incognito; che volle certo alludere a una egual testimonianza lapidea per l’Arcipelago dalmatico in cima ai miei pensieri fedeli, in mezzo al mio coraggio che non è se non un aspetto della mia meditazione.

O Marcello, quanti altri cimelii – come ti piace di chiamar queste scaglie del mio destino –, quanti su questa tavola di artiere duro! Più di quaranta. E come farò a mandarteli tutti e a illustrarli nella memoria?

Siimi indulgente. E teco mi sia pietosa la mia Milano di ieri, di oggi, di ogni tempo. Vide cor meum.

Già chiaro è il mattino. Fausto è il presagio. È l’ora della dipartita.

Riparto per due mete discordi non inerme. Addio, Marcello.

Il Vittoriale: 9 agosto 1934.

Gabriele d’Annunzio



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