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41. Riodo
Vi sovviene ancóra, o Chiaroviso, di quel giorno d’estate acerbo e torbido come un meriggio di primavera immatura? Era l’ultimo spettacolo della vita leggera: la gara breve della grazia e dell’ardore ereditati per sangue. I puledri di due anni ci parvero le più belle creature dell’Universo, alti su le gambe e senza ventre come i miei levrieri creati e allevati nello stampo ideale dalla mia volontà che impara ogni arte.
L’ippodromo era quasi deserto. Rari e assorti gli spettatori, tenuti da una inquietudine comune che inclinava i loro sguardi verso il suolo come se nel verde agguagliato cercassero erbe da sortilegi. Taluni erano sprofondati nella lettura dei fogli sibillini, senza volgersi al ritmo delizioso che segnavano gli zoccoli dei giovani cavalli partendo in gruppo sul terreno sonoro e cedevole. lo pensavo al principio di un’ode, che somigliasse a quell’impeto fresco, fresco e allegro come il frullo d’uno stormo d’uccelli spiccatosi da una frasca rinnovellata; il quale era per risolversi in schiuma e in sudore fumanti giù per la pelle ove il fuoco delle vene palesi dava imagine di quella vibrazione silenziosa che la canicola crea contro le sabbie ignude.
Patetica ora di bellezza e di divinazione, perpetuata nella memoria come il frammento d’un fregio sopravvissuto a un tempio in rovina. Non era infatti men bello della cavalcata fidiaca quel grande stuolo di puledri «figli del vento» che non sembravano calpestare l’erba ma sorvolarla. Erano ventuno: tre volte sette: il numero ritmico e magico del quale fui sempre studioso. E li cavalcavano fantini quasi fanciulli, dai visi netti, senza pur la prima lanugine, fratelli minori dei cavalieri ateniesi, sprovvisti della clamide e del cappello tessalico ma non della flessibile eleganza.
Ci protendevamo dallo steccato per seguire la corsa, con gli occhi avidi di chi s’accommiata e si volge prima di allontanarsi. Seguivamo quell’onda ardente e fremente, dal sole all’ombra, dall’ombra al sole, su la pista verde e azzurra a volta a volta, con la stessa agitata malinconia che ci travaglia quando vediamo dileguare l’ultima giovinezza o l’ultimo amore o l’ultimo piacere.
Era l’ultimo gioco dei nostri ozii e della nostra pace. Attendevamo che del gruppo, compatto come una sola bestia baia dalle zampe numerose, irrompesse il vincitore certo, il campione designato, quello che avevamo scelto per la scommessa, quello che l’eccellenza della struttura e la potenza del sangue annunziavano più formidabile nella lotta. E mi si ripresentava nella mente concitata quel meraviglioso corsiere britanno, prediletto della vittoria, che sul punto d’esser superato dal rivale si voltò furibondo e lo addentò al garrese per impedirgli di vincere. Così a un tratto l’ansietà del gioco si mutava in un sentimento più acre e più profondo. Non già sprizzò sangue dal garrese del puledro che alla svolta sopravanzava di tutta l’incollatura lo stuolo chiuso conducendo la corsa; ma l’odore del sangue futuro pareva salire da quel dolce seno dell’Isola di Francia, ma dai molli orizzonti del Vallese pareva affacciarsi la Guerra e soffiare la sua afa di putredine e d’incendio.
Non più palpitavamo per quella vittoria ma per un’altra, non più per i giovani cavalli ma per i giovani eroi. Ci guardavamo negli occhi, a leggervi lo stesso pensiero; ed eravamo un poco pallidi, sotto l’ombra d’una nuvola fugace. E, come nei nostri occhi fraterni, in tutta la nobiltà della contrada, su cui tremolava pel declinare del giorno il sorriso italiano di Silvia, noi leggevamo il presagio della resurrezione latina.