Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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43. Rare parole, passi lenti, gravi pensieri. Le torri del Castello allungavano l’ombra su i bacini e su gli spiazzi. Laggiù, forme taciturne della sera, un cigno attraversava uno stagno, una cerva attraversava un viale. Laggiù, in una sala deserta, il serpe grazioso si dislacciava dal collo della Simonetta e le si moltiplicava nei capelli ornati. Il bel capo genovese si faceva irto e sibilante come quello della Górgone, e sovr’esso la nuvola del destino si gonfiava di minaccia.

Sorridevamo di questa imaginazione camminando sul tappeto dell’erba; ma, come la luce si dipartiva da tutte le cose per andarsene all’Occidente, sentivamo tutte le cose più dilette a poco a poco abbandonarci. Non soltanto un giorno finiva ma un mondo si dissolveva. I fantasmi della vita leggera si dileguavano più veloci che il galoppo dei giovani cavalli. In mezzo a quel morbido prato una necessità repentina ci premeva e ci curvava, dura come il ginocchio del Genio michelangiolesco.

Io e Marcello, il mio compagno di giuochi, distaccandoci alquanto dalle gonne serrate che sembravano impastoiare anche le nostre gambe, ci guardammo con una commozione che scomponeva le nostre labbra e ci stringeva la gola; perché il flutto dei nostri pensieri e dei nostri presentimenti, levandosi e aumentandosi nel tempo medesimo, ci aveva insieme sopraffatti.

La casa materna era , tranquilla, sotto la protezione dei vecchi alberi: bella e comoda casa francese, tutta chiara e nitida, illuminata dall’ordine quasi più che dalle finestre, un poco italianeggiante come un sonetto della Pleiade.


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