Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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71. Non avevo mai sentito più misteriosamente la natura magica dei miei cani. Nel gran canile imbiancato i loro occhi brillavano come carboni accesi su la neve, maravigliosamente. Quando udirono i colpi improvvisi battuti alla porta esterna, tutti balzarono dalle cucce e si drizzarono tutti contro i cancelli latrando. Lo splendore ferino dei denti vinceva quello degli occhi. Eretti su le zampe di dietro, con la carena del petto contro le sbarre, col collo arcuato, con tese le orecchie, erano bestie da combattimento, pronte allo slancio e alla presa.

Un soldato veniva, dal posto vicino, ad annunziare il pericolo imminente e a consigliare lo sgombro rapido del casale. Ma avevamo imparato il sorriso di Francia, e rispondemmo con quel sorriso. Dama Rosa non era più difesa dagli Zuavi ma da una muta di sessanta levrieri, da un battaglione dentato. Non abbandonavamo i bei compagni, ma volevamo con essi aspettare il ferro e il fuoco.

Inchiodammo le nostre bandiere ai pali del chiuso, esaminammo le armi, distribuimmo un lauto pasto, e ci disponemmo a vegliare. Tra la muta senza collariguinzagli, Donatella aveva un viso d’astuzia allegra, come chi consideri l’effetto d’uno stratagemma inopinato. Al chiarore della lanterna, ella si chinava verso la famosa Meg che non aveva ancor finito di leccare i suoi dodici pezzati cuccioli partoriti la mattina. saltava come un canguro, chiedendo di continuo qualcosa da divorare; il gruppo demoniaco dei cani neri, condotto dall’enorme Great Man, se ne stava taciturno in disparte, serbando l’attitudine dell’agguato; la mia dolce Dorset color di miele, costrutta come una piccola arpa sensibile, non si dipartiva dalla sua schifiltà d’ermellino timoroso di contaminarsi; e la vostra vecchia Delrosa, per la rarissima nobiltà del suo lignaggio scampata al sacrifizio compiuto da Marcello non senza pianto, alzava il sottile muso con angoscia cercando di vedere dai suoi poveri occhi intorbidati.

Imaginavamo che i nostri cani fossero per essere i precursori di quelli, in séguito celebratissimi, i quali escivano dal limite dei villaggi distrutti formando una catena di difesa intorno ai focolari ancor fumanti. I garzoni, in assetto di guerra, motteggiavano spezzando il biscotto quadrato e sparpagliando nelle cucce i lunghi fastelli di paglia fresca. A quando a quando, taluno si poneva in ascolto credendo aver udito il trotto d’una pattuglia di ulani. Il vento vivo, profumato dal fogliame della foresta e rinfrescato dalla corrente della Senna, agitava in cima ai pali le bandiere latine. Si udiva talvolta uno strepito di carriaggi per la via di Versaglia; si udiva talvolta il rombo di un motore sotto i ricoveri degli uomini alati. Poi seguivano grandi pause di silenzio radioso. La luna era al colmo. Un comandamento di pace scendeva dal sereno. La melodia dell’erba brulicante pareva cullare i morti immemori. Le rane ospiti della piscina mettevano a prova note intermesse, come se stentassero ad accordare ottavini e clarinetti per il concerto di mezzanotte. bene unti; e un sentimento di bellezza eroica superava l’ironia della mia attesa. La giovine donna, disdegnando ogni consiglio di prudenza, era pronta a perire coi suoi cani ammirabili difendendo le mura del suo rifugio. I denti le brillavano più che il bianco degli occhi, rischiarando quel suo viso di bel fanciullo caparbio. Ella imaginava di scagliare col suo grido gutturale la muta formidabile contro i primi invasori apparsi, e di capitanare la strana battaglia nel rossore dell’incendio.

Stando disteso in mezzo all’erba, tra Dorset e Agitator che si serravano ai miei fianchi tenendo il muso contro le mie ascelle, io la udivo parlare nel canile, di banco in banco, non altrimenti che un capitano in punto di esortare i suoi fedeli. Sorridevo all’avventura che d’imaginaria poteva farsi verace, considerando come la morte non mi potesse cogliere in un’ora di più singolare poesiaspegnermi in più grande pienezza di vita.

Il grido di un uccello notturno si prolungò nel sonno profondo della foresta.

Di sopra il muro pallido le querce scossero lievemente il capo. Un filo d’erba, che mi sfiorava la tempia, sentì l’approssimarsi dell’alba e me lo disse. L’anima la riconobbe prima dell’occhio vigile, più esperta a distinguere luce da luce.

Allora mi levai, ed eccitai la coppia dei levrieri al giuoco. Essi partirono di balzo nell’erba che si sbiancava pel solco della loro rapidità. Pareva che la falciassero col lor vigore falcato. Poi s’aggiravano in volute sempre più strette, come i vènti quando fanno mulinello.


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