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76. Ora un giorno avvenne ch’io fossi da tanta violenza non trascinato ma stramazzato, nella mota sdrucciolevole, dopo l’acquazzone di settembre ond’era stillante e scintillante tutto il fogliame. Avevo i guinzagli attortigliati ad ambo i polsi, e la volontà ferma di non lasciare a nessun costo sbandarsi i levrieri che, come i vènti, non tornano più indietro né si arrestano finché hanno soffio. Come quei conduttori di carri che urtando la mèta precipitano e sono travolti nella polvere dai corsieri impazziti, mi rotolavo nelle peste mollicce, mi avvoltolavo nel fango rossastro, risolcavo la carrareccia con i piedi con le ginocchia e col capo.
Quando alfine soccorso da un’asperità del suolo riuscii a frenare l’impeto e a rialzarmi, avevo tutto il viso impiastrato e facevo sangue dalle gengive e dalle narici, mi sentivo stronchi i gomiti e i polsi. Assistito dai garzoni sopraggiunti coi miei cuccioli di un anno eccitati come gli adulti, districai l’intrico dei guinzagli e mi liberai per tastarmi il corpo contuso. Ridevo di me, e il mio riso sapeva di sangue e di mota.
Spedita la muta innanzi, restai solo e mi sedetti contro un ceppo di quercia presso il ciglio del fosso.
L’avventura era ridevole, ma su i miei panni terrosi e su le mie mani segate dal cuoio c’era qualche stilla rossa. Avevo in bocca un sapore di terra e di vena.