Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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77. Allora dalla solitudine, placato l’ansito, sedato l’istinto del gioco, venne in me un sentimento grave che a poco a poco s’illuminò di poesia. Assorto, lasciavo su me gocciolare il sangue e disseccarsi la mota. Quel fosso deserto mi dava imagine della trincea tremenda. Sentivo la presenza della morte a tutti i crocicchi del laberinto silvestro. Sentivo dentro me il mio scheletro prigioniero, involuto di carne riconversa in argilla. Sentivo, presso e lungi, la insaziabile voracità della terra, e la deità sua.

L’una e l’altra avevano obliato gli uomini. Avevano essi creduto di averla vinta e asservita. Con la rapidità avevano abolito i suoi spazii, quasi direi scorciato le sue forme in sfondi di baleno, quasi palpato la sua diversità con non so qual nuovo senso titanico. Con le macchine simili a miriadi di schiavi senza sonno e senza fame, avevano forato i monti, cavato le miniere, imprigionato le sorgenti, domato i flutti, deviato i fiumi, tagliato gli istmi. Non forse ci sembrava di averla stretta, con vincoli più forti di quelli onde gli Italioti avvolgevano il più antico simulacro di Opi? Avevamo discostato dal nostro spirito il suo genio, come il vangatore col suo coltello distacca dalle suola la zolla premuta, stando a sera su l’aia o su la soglia. Ed ecco, di sùbito, ella ci riapparisce in una specie di rivelazione primitiva, come al pastore dei tempi dritto su la collina e rivolto verso i punti sacri del mondo. Di sùbito, ella ci riafferra, ci riprende la carne e l’alito, ci spalma della sua creta, ci abbraccia ineluttabile, ci piega al suo amore vorace, ci inebria di orrore e di virtù, mescola la sua sostanza al nostro coraggio, la nostra morte alla sua immortalità.

Sempre la guerra nei secoli ricondusse le creature verso colei «che ha un vasto e ricco petto».

Il guerriero di Amasi dinanzi a Barce, il Macedone a Tebe, il Romano a Temiscira, il Gallo contro Cesare in Avarico, ognuno respirava l’odore di giù, maravigliosamente sospeso fra la cuna e la tomba, come il figlio della terza Republica nella trincea della Sciampagna o della Mosa, nelle sabbie della Fiandra o nei forteti dell’Argonna, votato alla profonda madre «che nutre i giovinetti e le ariste». Ma questa guerra suprema sembra interamente rifondere tutte le stirpi nella materia originale affinché i loro genii possano alfine rifoggiarli nel fango sanguinoso e risollevarli alla vita con un soffio più vasto.

L’alpe, il colle, il poggio, il piano, la ripa, la duna, la selva non più ci appariscono come visioni velate d’aria ma come azioni mistiche il cui ritmo si congiunge alle vicissitudini del fato umano non meno strettamente che giustizia e forza quando lottiamo col nemico a corpo a corpo. Sopra tanti misfatti, tante menzogne, tante vergogne, si spande per noi Latini non so qual pura magnanimità. Dalle albe più remote risplende a noi la nobiltà delle nostre origini, con i gesti e con i segni. Il cielo su la nostra battaglia è un tempio aereo simile a quello che l’augure partiva sul suo capo, da settentrione ad austro, con la sua verga adunca. Non altrimenti disegnava egli un tempio sul suolo patrio, di forma quadrata, non esistente se non in ispirito, senza murirecinto. Tuttavia i limiti erano inviolabili. E gli eserciti, nei loro accampamenti d’ogni sera, imitavano l’imagine del tempio onde avevan seco recato gli auspicii.

Così mi raffiguravo io allora, così oggi mi raffiguro le linee ideali dei nostri valli latini contro le tane avverse. Così per noi ciascun moggio di terra scavata è offerto agli spiriti che la deificano e divengono i Penati del combattente. Tra le radici e le pietre, ben questi ritrova nella profondità compatta la virtù de’ suoi padri, oppure, sotto l’assiduo fuoco e l’ostinato ferro, inventa la sua, novissima. Il suo grido di vittoria o di riscossa screpola sul suo corpo l’involucro risecco che stagna le sue ferite.


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