Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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87. Dopo mi accadde di approssimarmi al tempio sublimato. La sua nuova bellezza mi sopraffece come un’apparizione improvvisa. L’incendio era spento, ma le fiamme vigevano come gli spiriti della musica si manifestano nella pausa che segue il suono.

Ella era giovane e integra, perché tutte quelle ferite la confermavano invulnerabile.

Era tutta pura, come quando fu posta nel suolo la prima pietra ed ella viveva sola nell’aria e nella mente del popolo creatore.

I tempi l’avevano caricata di molte cose vane ed estranee; ed ecco, di ogni cosa vana ed estranea ella era monda.

I grandi pilastri parevano esser ritornati alla natura sacra, esser ridivenuti rupi da percuotere per isprigionarne fonti nascoste.

Le vetrate non serbavano se non i neri piombi, come le foglie consunte dall’autunno non serbano se non le nervature; ma i piombi disegnavano imagini di cielo dov’erano imagini di vetro.

I sette e sette contrafforti mi parevano come ingigantiti dallo sforzo di serrare una vita strapotente e di sollevarla.

La torre incotta dall’arsione aveva il colore che ha la carne dei martiri quando nel martirio trasumana. Pativa e cantava, come i confessori.

E v’era un canto udito e un canto inaudito.

Dinanzi al Battesimo di Clodoveo era deserta la cantoria del Gloria dove i chierici solevano intonar l’inno nella domenica dell’Ulivo. Ma l’occupava non so che aspettazione, quasi visibile come quel drappo che vien disteso nella loggia dove sia per apparire il benedicente o l’annunziatore.

Dirò forse più tardi tutto quel che vidi e compresi e interpretai nel tempio non ruinato ma restituito a grazia per la Sagra futura.

Oggi dico un movimento della mia ispirazione.

Guardavo le nuvole cineree lacerarsi ai pinnacoli dei contrafforti e correre verso il levante, come battaglioni mandati alla riscossa. Nella torre arsa il capo d’una statua incotto si disfece come al vento la lana d’un cardo; si dissipò, si dileguò; e fui cosparso da un lieve polverio, quasi da poca cenere squallida. Mi voltai verso l’immane Crocifisso tutto arrossato dall’incendio, come tratto dalla guaina delle sue membra per una perfezione di supplizio, tutto muscoli e vene palesi. Lo vidi senza cranio e non irto di spine ma d’un lungo chiodo rugginoso, più crudele degli altri tre confitti.

La piazza era deserta. L’aria fumigava sopra le mura fosche delle case bruciate. Il mortaio brutale tonava e ululava. Udii un lungo schianto. E il custode si fece al limitare della Porta maggiore e mi chiamò. Una granata aveva colpito il grande organo, aveva ucciso il gran corpo sonoro. La selva delle canne appariva tuttavia intatta. Non così poteva il canto degli edificatori essere spento. Raccolsi una scheggia di quel legno impregnato d’armonia, e rimasi in ascolto.


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