Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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88. Da una parte e dall’altra della Porta, robuste travature embriciate dantesco in una di quelle statue barbata e coperta d’una sorta di berretta da navigatore. Ricordavo il vigilante coraggio del suo viso, e la sua bocca sinuosa ma ferma, che i ricci della barba lasciavano libera: bocca degna di proferire l’«orazion picciola».

Considerate la vostra semenza:

Fatti non foste a viver come bruti…

Travolto da un’onda di tristezza, mi risentii fuoruscito e discorde. La solitudine si fece ferrea veramente, mi compresse le costole come un congegno di tortura. Chiusi gli occhi; e la mia patria, dimentica ma indimenticabile, mi si formò dal cuore con un rilievo più potente che il rilievo di qualunque simulacro. E il cuore era pieno di pietà, di rimorso, di rimpianto, di rampogna, di furia, di onta, di supplicazione, di dedizione, di presagio.

Considerate la vostra semenza.

Era ben quello il verso eterno da incidere nella fronte dell’orgoglio latino. Dall’altra parte erano i bruti, con le loro ignominie. Ed ecco che l’ingiuria loro non aveva potuto distruggere la bellezza costrutta dalla volontà creatrice. Tanta bellezza s’era fatta più altera e più alta, come ogni creatura regale si solleva sopra l’oltraggio.

V’è una superstizione della bellezza. Io la posseggo. Perché la Cattedrale mi sembrasse più patetica e più pura, bisognava che veramente delle tante sue pietre profanate falsate racconciate rinnovate ella si fosse alleggerita nella ruina e che per una sorte misteriosa ella avesse conservato i suoi segni più nobili.

«È salvo l’Ulisse di Dantechiedeva al mio cuore la mia angoscia. Ma già conoscevo la risposta dell’intimo dio. Quel che è più bello non perisce.

Nella sera dell’incendio le fiamme congiungendosi imitavano i due archi dell’ogiva. Ora l’imaginazione mi rappresentava il fuoco diviso in due corni, il rogo bipartito ove si consuma il martirio dei due compagni.

O voi che siete duo dentro ad un fuoco!

Nel mio spirito ogni sillaba s’innovava di significazioni attuali. Il Libro della mia gente non è forse grave di oracoli per ogni interprete?

La mia superstizione dalla incolumità o dal guasto della statua eletta voleva trarre l’auspicio di ciò ch’era nella mia fede, nei miei vóti e nella mia impazienza.

Allora sguisciai fra travatura e modanatura, mi curvai nell’ombra dei sacchi, palpando la pietra con le mani cariche d’anima, come chi nel buio speri di riconoscere il suo caro tra morienti e morti. Per gli interstizii penetrava qua e il chiarore svelando l’orlo d’una tunica, un gomito piegato, due piedi giunti. V’era quasi l’umidità della trincea scavata di recente, la segretezza del cammino coperto, l’ingombro tumultuario dell’opera difensiva alzata per chiudere la breccia. Battevo il capo ora contro una trave ora contro una sagoma. M’arrestavo e repugnavo a ogni tratto, come chi tema di calpestare un cadavere o di rivoltolare un teschio. Finalmente, aggrappandomi, credetti sentire sotto le mie dita le pieghe del saio marino. Mi sforzai allora di allargare lo spiraglio tra sacco e sacco, palpitando come il sepolto vivo che ha sete della luce. Mi volsi nell’angustia, aguzzai la vista in su; e, col tremito di chi disseppellisca un capolavoro profondo, scopersi la chiusa bocca dagli angoli rilevati, che non sorrideva come le labbra sorridono ma come sorride la mente.

L’effigie dell’Ulisse dantesco, dell’esemplare eroe tirreno, era intatta; e pareva spiare in silenzio per la falla da me aperta fra i due sacchi di rena, tranquillo e pronto come nel ventre del cavallo di Troia. Soltanto aveva sul ginocchio una scalfittura, bianchiccia nella pàtina bruna.

«Ale al folle vologridò senza suono il mio cuore. Il presagio era fausto. I due corni della fiamma antica dovevano convergere. Un presto Ulisside doveva disfare la Circe grinzosa e il suo branco.

Ma ho grazia presso di voi, o Chiaroviso, per una sollecitudine più dolce. Marcello, nei primi giorni della guerra, s’era già accommiatato dalle cose più care. Aveva già condotto alla requisizione la sua bella cavalla da caccia, la sua fedele compagna di corse e di fantasie, nata per portare i sogni d’un poeta a traverso le bionde campagne e i ruscelli flessibili del Vallese. Aveva già sacrificato le sue cagne, tranne la vecchia cieca Delrosa rifugiata nei granai di Donatella; le aveva prese egli stesso a guinzaglio per darle alla morte tuttavia gioiose e balzanti; aveva egli stesso coricato i nobili corpi, l’uno accanto all’altro, nella fossa cavata in mezzo alla foresta; e se n’era tornato per il sentiero, a capo chino, coi collari vuoti e coi guinzagli flosci.


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