Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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92. In una pausa della pioggia udivamo talvolta all’improvviso una rondine tardiva rasente la finestra gittare un grido che ci passava l’anima. Non potevamo più resistere alla nostra tristezza. Ci alzavamo, uscivamo. I cani indovinavano e balzavano dai banchi disperatamente latrando. I latrati e i mugghi facevano un coro tetro nel gran chiostro di melma. Fuggivamo verso la strada di Versaglia, per avere una tregua.

, una sera, incontrammo un carro che portava i resti d’un velivolo caduto: le ali rotte e lacere, l’elica schiantata, il motore contorto e lordo di fango. Una seconda macchina in corsa passò, sotto il riflesso giallo del crepuscolo, portando due corpi inerti e insanguinati. Uno dei due era quasi informe.

Un’altra volta, verso il tramonto, nel campo incolto ch’è tra il limite del bosco e il muro di cinta, vidi una greggia all’addiaccio, chiusa intorno da una rete rada, come in uno stazzo della mia terra d’Abruzzi. Le pecore s’ammusavano in un mucchio lanoso, già sentendo la notte. Ma sopra il mucchio turbinava uno stormo sperduto di rondini. Era un turbine nero d’angoscia, con qualche guizzo bianco. Erano le rondini sbigottite dal fragore della cannonata, respinte dal rombo della battaglia, timorose di valicare la linea del fuoco. Ne avevo già vedute tante tremare su i fili del telegrafo o tramortire su i margini delle vie solcate e risolcate dalle ambulanze. Ma quelle, più delle altre, mi attristarono.

Volavano basso, rasente i dossi lanuti, per sentire il calore della greggia compatta, per beccare nella lana grassa gli insetti. Avevano freddo, avevano fame, avevano paura, e una grazia malinconica che pareva toccare il cuore deserto dell’autunno. Non osavano sollevarsiorientarsiintraprendere la dipartita. Temevano la sera, temevano la notte. Erano condannate a perire nell’Isola di Francia, a marcire come le frondi, a non più rivedere le contrade serene. E s’aggiravano, s’aggiravano senza posa nel calore esalato dal branco raccolto. Le pecore non si movevano, non alzavano i musi. Restavano in silenzio aspettando la notte paziente, dentro la rete sicura. Alcuna rondine, a quando a quando, s’impigliava nei bioccoli, si dibatteva per qualche attimo, nera e forcuta sul biancicore; poi si liberava e riprendeva a roteare.

M’appressai con cautela. Una s’era intricata nella rete e non riusciva a districarsi. S’udiva il suo strido superare lo stridio fioco dello stormo disperato.

Allora accorsi, per aiutarla. Senza farle male, tolsi dal laccio improvviso i suoi artiglietti selvaggi. L’ebbi palpitante nella mano. Era tutta cuore e piuma. Vedendomi vicino, il suo stuolo s’era alzato nell’aria. Io feci un vóto nella mia tristezza segreta, e diedi la libertà alla messaggera. Ella, come se le avessi infuso un coraggio subitaneo, partì verso austro, simile a una freccia che io avessi scoccata dal mio arco invisibile. E fu condottiera; ché tutta la compagnia la seguì alla ventura, senza più strida.

Andò a impigliarsi nei veli della notte, con la prima stella? O riuscì a valicare l’impedimento fragoroso e a ritrovare la traccia della speranza?

O Chiaroviso, in quel mattino dello scorcio di maggio, quando ebbi l’annunzio inatteso della vostra visita all’infermo, nella prima meraviglia, udendo gridare una rondine presso il davanzale veneziano già fiorito di gelsomini, m’imaginai che fosse proprio quella dell’addiaccio da me tenuta nella mia mano, tanta fu la forza della vita che a me ritornava di laggiù, dal piano che sta tra la via di Versaglia e la foresta di Meudon, dalla contrada di Dama Rosa.


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