Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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93. Sùbito il mio mattino d’infermo fu agitato dai fantasmi della vita energica nell’aria libera, al nuvolo e al sereno. Col gesto abituale, sollevai la benda di su l’occhio leso per osservare il tristo ragno nero che v’ha tessuta la sua tela iniqua. Occupava esso pur sempre il centro, col suo addome rotondo, e non erano le cordicinediradateimpallidite. Ma il mio corpo, vinto dai miei torturatori amorevoli in tredici settimane di cure, parve a un tratto percorso dalla primitiva inquietudine muscolare. Sentii sul viso mezzo cieco risoffiare la brezza frizzante dei mattini d’allenamento, quando la potenza animale si comunicava anche ai miei garetti e alla mia schiena. Sentii quegli atti e quegli sforzi rieccitare i miei nervi affievoliti, come se una virtù magica operasse in me una guarigione repentina e mi trasportasse sopra l’erba rasa tra i miei cani gioiosi.

Le voci gettate da un’estremità della prateria verso l’estremità opposta dove il garzone sguinzaglia la coppia, che alle voci parte bruciando il suolo come una doppia fiamma, per alfine gettarsi ai miei piedi e rotolarsi nel verde o solcarlo con la carena acuta del petto. Gli inseguimenti e le scalmane per sedare le risse che separate ricominciano più da discosto; gli sdruci e la gioia di sentirsi quasi il liutaio di quella perfezione viva. I pasti sostanziali di rossa carne trita, data in porzioni esatte, con la mia propria mano abile a non lasciarsi prendere un paio di falangi dalla voracità che ingoia prima con gli occhi e poi con la gola. La visita notturna di banco in banco, il tocco lieve per accertarmi che il tartufo scuro o chiaro del naso sia ghiaccio, segno della tranquilla salute; il rimescolìo della paglia compressa; le coperte riassettate, riallacciate; l’esplorazione attenta delle correnti d’aria e delle lanterne sospese; la carezza tenera per l’eletto, con in cuore l’augurio della vittoria.


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