Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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94. Scrivi che quivi è perfecta letitia.

La sveglia impaziente nel giorno della gara; l’irrequietezza nervosa su i banchi di quelli che già sanno di dover correre perché hanno veduto sospesi alle inferriate i bei mantelli da cerimonia distinti dai tre anelli d’oro e dalle tre frecce d’argento; il governo minuzioso, le fregagioni toniche della miscela bianca, l’esame dei piedi tra dito e dito e il lavamento tiepido; il pasto eccitante e leggero, la breve passeggiata nella corte per la comodità del ventre, una occhiata non vana in memoria degli antichi aruspici. La vestizione dei prescelti, resa difficile dalla loro frenesia, tra il clamore e i lanci disperati dei prigionieri; la cautela nel distribuirli agli allenatori che li pongono dentro le automobili chiuse e li guardano; la gelosia di tutti contro i favoriti che prendo con me nella vettura più comoda. La pena e la tenerezza per il loro continuo tremito, per la loro angoscia, per i loro sguardi ora di belve implacabili ora di cortigiane innamorate. La loro smania di starmi addosso, di insinuarsi dietro la mia schiena, di salire su le mie ginocchia, di alitarmi in faccia a traverso la museruola. La comunicanza profonda, per contatto e per imaginazione, tra la loro generosità e la mia, tra la mia e la loro fiducia, tra la mia e la loro attesa.

Scrivi che quivi è perfecta letitia.

L’arrivo sul prato della corsa, la prudenza nel moderare il balzo della discesa, la sbirciata ai rivali, il passo ondoleggiante delle coppie disdegnose sotto l’eleganza principesca dei mantelli d’ottima foggia. La terribilità che a un tratto s’accende nelle pupille dardeggiate, quando appariscono le alte stuoie di paglia ond’è cinto il parco delle lepri d’Ungheria. L’entrata nel ricovero di legno a due scompartimenti, l’un de’ quali pieno di uova, di balsami, di droghe, di bevande, di lini, di lane. Il primo suono della campanella, che inaugura la prima gara; il battito concorde dei cuori negli animali a due piedi e in quelli a quattro piedi, divenuti quasi consanguinei; il nome del mio cane gridato dal punto della partenza, ove brilla il panciotto rosso dello sguinzagliatore. Il passaggio solenne del campione lungo la fila dei conoscitori addossati al parapetto del campo; il mio sforzo per serbare un viso tranquillissimo in cima a un ardore e a un’ansietà di gioco che mi travagliano come una passione indomabile; la consegna del favorito all’uomo che gli leva delicatamente la coperta pel verso del pelo, lo sospinge per metterlo a paro del rivale già pronto, lo fascia col sovattolo resistente per meglio trattenerlo al primo escire incerto della lepre sul prato. Poi il precipitarsi della coppia occhiuta e zannuta, a lanci, mal frenata dall’uomo che correndo la regge ancóra; lo scatto del congegno che apre i collari e la via agli inseguitori; lo scocco della rapidità, dell’agilità, della ferocia, della bellezza, della morte, di tutto ciò che pone lo spirito della lotta all’apice del mondo. Lo spasimo del mio cuore, la contrattura di tutti i miei nervi, sotto il dominio del mio viso impassibile; il soffio della resistenza e del coraggio, comunicato a traverso lo spazio, dall’immobilità silenziosa; lo sguardo fisso che non abbandona mai né i cani né il giudice né la sorte. Infine la preda afferrata in aria, mentre fa l’ultimo sette; la coda tesa e rigida dell’uccisore, in quel prodigio elastico, usata come il timone del naviglio che vira di gran forza; il gemito leporino, simile al suono di un oboe fesso, nel silenzio dell’aria grigia; l’accorrere verso il vittorioso, col collare, col guinzaglio, col mantello; le prime cure della bocca e della gola piene di sangue e di pelame; le parole del gergo di canile mormorate nell’orecchio eretto e vibrante; il ritorno superbo nel ricovero; l’esame di tutte le membra, fatto in ginocchio; il cordiale dato a cucchiai; il conforto magnetico dato con le palme delle mani e con la dolcezza della voce, nell’attesa della seconda prova.

Scrivi che quivi è perfecta letitia.

Tutte queste cose, o Chiaroviso, o Nontivolio, tornarono a vivere nella mia vita, con gli sforzi, con gli scatti, con i ritmi, con i movimenti bruschi o lievi ch’esse richiedono. Il vigore dell’uomo sano si levò dal languore dell’infermo. Strappata la benda vile, stavo quasi per gridare: «Datemi gli stivali ingrassati! Datemi la frusta lunga! Datemi la pelliccia grigia!». Era un mattino di corse? Un mattino aspro di febbraio? Gli uomini, finita la guerra, riprendevano i giuochi severi? Avevamo noi incettato da padroni, in Ungheria, le grandi lepri rossastre di lunga lena? Il fornimento del nostro parco faceva parte del bottino? M’era giunta una coppia di levrieri illustri per le prossime gare? Chiaroviso e Nontivolio erano i loro nomi? S’italianizzavano anche le glorie del canile da corsa. Buon segno!

O amica, metto anche questo fra i miei sogni d’infermo che solevo trascrivere nel buio sopra le strette liste di carta sibilline, non senza qualche sorriso nel supplizio.


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