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98. Nontivolio quella sera portava una veste di tela rude color di laguna quando intorno alla barena Avevamo voglia di toccarlo, di sentirne la morbidezza e il peso, come d’una stoffa che fosse sciorinata nel fondaco d’un setaiuolo.
Ma se tanto era mirabile il nero, il bianco era oltremirabile. La pietra degli architravi, degli stipiti, dei gradini, degli zoccoli pareva imbevuta di lume stellare. La fosforescenza mossa dal remo nel rio pareva vi si propagasse e vi durasse. Valori e rapporti non mai trovati da alcuno più potente o esquisito colorista si succedevano con una sensualità che ci rapiva fino alla più alta ebrezza musicale, come se in una barca invisibile ci seguissero i sonatori di Giorgione.
La stessa mia infermità moltiplicava per me gli incanti e gli inganni, confondendo la misura delle distanze, prolungando o accorciando gli spazii, congiungendo o sovrapponendo i fantasmi delle cose, per modo che io mi credeva gioco d’una Morgana notturna venuta dall’estremo limite delle lagune deserte a illudere la città spenta e il poeta semispento.
Mettevo le mani innanzi per non urtare il capo contro i pilastri d’una chiesa quasi bianca e quasi bruna, e la chiesa si discostava palpitando come una vela chioggiotta tinta di emblemi neri.
Un muro mi precludeva il passo nella fondamenta sonora, ed ecco si apriva davanti a me come una torma di pietre mobili, risvegliandomi il ricordo di quando m’accadeva di traversare trasognato una di quelle greggi che passano innanzi l’alba per le vie di Roma, appunto intorno al tempo del solstizio.
Così, di calle in calle, di campo in campo, di rio in rio, già improvvisavo quell’arte che mi servirà ad attenuare il colpo della sorte. Fasciato la tempia dolente, bendato l’occhio estinto, già imparavo quei movimenti accorti del capo che debbono sovvenire al difetto. E mi pareva cominciasse a spandersi nelle mie membra un senso delicato, non forse dissimile a quello che dirige i tentacoli.
Ma sul Canalazzo la Morgana ombrifera faceva i suoi giuochi più molli, dissolvendo la pietra, distemperandola nell’acqua, colorandone la marea. Tal palagio era convertito in una vasta chiazza d’olio natante, ricco in colore e in essenza come gli olii aromatici conservati negli otri d’Arabia. Tal altro ondeggiava immerso fino alla sommità, fino all’altana, come un edificio della città abissata che traspare nella leggenda oceanica. I sandali, le gondole, le peote, a un tratto non si tuffasse.
Udivamo il fresco strepito della marea contro le rive levigate, misterioso ed esultante come lo strepito del disgelo primaverile nell’alpe, come la sinfonia remota e prossima che odono i navigatori polari quando il settentrione si disghiaccia. Era una gioia delle vene, un giubilo dei polsi, prima che dell’anima. Il crescente la Via lattea in fosforescenza. Alzavamo la fronte per riconoscere il vero cielo. Era il vespro? era l’alba? Veniva da occidente, veniva da oriente quel chiarore?
Innamorata del pallido crepuscolo, la notte lo aveva preso nelle sue braccia per non lasciarlo morire; e vivo da occidente lo traslatava a oriente, fra il tremore attonito degli astri. A quando a quando si soffermava ella per rimirarlo o per baciarlo; e nell’abbandono lasciava cadere alcuno dei suoi veli costellati nel flusso che li rapiva per non più renderli.
Avevamo dunque dimenticato il sangue? il bulicame che non resta mai? quell’altra marea che sempre monta e che per istelle travolge gli eroi?
Riudivo su la città anadiomene l’allarme della sirena sinistra, il colpo di cannone annunziante l’incursione celeste, il fragore delle altane lampeggianti come torri di navi in battaglia. E mi ritornava di lontano l’ambascia che mi prese sul ciglione della strada ingombra di ambulanze laggiù, nella signoria di Clodoveo, quando vidi mozzare la guglia di San Giovanni della Vigna.
«Dove andiamo?» Sorgeva in noi un pensiero concorde. L’Alpe scheggiata di Trento, le colline sfigurate di Verdun si levavano sopra ogni bellezza, di là da ogni armonia. Il sentimento della lontananza ci affaticava come un affanno implacabile. Non avevamo dentro al petto se non la piaga fumante della patria. Lo sguardo fraterno mi rendeva la mia fascia e la mia benda più care di ogni lauro. «Dove andiamo?»
Non era più un passo di nottambuli oziosi il nostro, ma diveniva rapido e diretto a una mèta. Passavamo quasi a tentoni le calli strette, i sottoportici bassi, i piccoli ponti erti. Non vedevamo più le stelle ma i rari fanali azzurri incappellati. L’ombra non era più di velluto ma di non so che incerto e incognito. La notte non portava più su le braccia il dolce crepuscolo ma il destino di ferro.