Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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103. Il giorno dopo, in quel giardino solatio della Giudecca, non respirammo tutta l’Italia bella sotto la specie del profumo?

Era come uno di quei doni che figurano la copia delle contrade.

Era come uno di quei doni che accompagnano il commiato, troppo ricchi, fatti per colmare e per straziare. Una ricchezza selvaggia. I fiori a mucchi, le erbe a fasci. I rosai commisti alle ortaglie. Il fogliame frastagliato del carciofo confuso con quello corinzio dell’acanto. Un arco violetto di pendule clematidi,

Dove siamo? Ecco un gruppo d’allori nobili come quelli del Bosco Parrasio. Dove siamo? Ecco una fila di cipressetti compagni a quelli di Vincigliata. Dove siamo? Ecco un pino emulo di quelli che albergano le cicale della Campania e le cornacchie dell’Agro.

Camminiamo per una ripa erbosa, piano, senza parlare, temendo che si sveglino i grandi uccelli di paradiso accovacciati, che non sono se non una fila di tuie auree, a cui il libecciuolo arruffa la piuma come increspa la laguna color di foglia d’aloè.

Rapiti, a un tratto, scorgiamo l’albore dell’Annunziazione. Mille e mille Angeli sono inclinati davanti a mille e mille Marie? e ciascuno alza il suo segno di purità? È la Via lattea dei gigli, il cammino senza labe. Tutti gli steli sono precocemente fioriti, avanti la festa del Santo. Maggiori di Chiaroviso, giungono alla tempia di Nontivolio altocinta. Tanto argento vince l’oro del sole e crea un incanto lunare nel giorno.

Dove siamo? Laggiù la Primavera d’Italia e l’Estate d’Italia alzano ciascuna il braccio nudo e congiungono in sommo l’una mano con l’altra, come nei balli a tondo quando tutta la catena deve passare sotto il giogo delle due prime danzatrici.

Ma le ospiti volgono per un altro cammino, con non so che umiltà inebriata.

E nessun fiore fu còlto.


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