Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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104. Il domani, verso sera, visitammo quel giardino bacìo che sta tra la Madonna dell’Orto e la Sacca della Misericordia, piantato dal procuratore di San Marco Tomaso Contarini fratello di quel cardinale Gaspare che fu candido amico di Vittoria Colonna e accomandò a Paolo III Ignazio di Loyola.

Non è un giardino disordinato e copioso come quello della Giudecca, mescolanza ardente di odori e di sapori. È ricomposto con arte su i vestigi cinquecenteschi, segretamente architettato, simile alle sale e alle camere terrene d’un palagio di verdura ove abiti una Stagione educata come una gentildonna ma non schiva d’intorbidare con qualche negligenza la sua grazia mite.

A traverso le sue grate di ferro guarda la laguna di Murano e di San Michele, dove il Gran Becchino attinge l’acqua triste con una secchia di vetro forata.

Ha le sue vecchie mura, la sua vecchissima cinta, Altri hanno altri aspetti, altre infermità, altre rimembranze. E il muro tocca l’anima come un racconto che passi per le pupille, scritto coi segni delle fenditure e delle cicatrici. Quando si vede qua e riapparire tra il fogliame, s’ha pietà come della vecchiezza denudata. Ma gli uccelli si posano su la sua cresta o sul ramo per cantare il medesimo canto.

Quella sera lo scirocco ci fu favorevole. Inumidì il mattone e la pietra ravvivandoli, come l’antiquario passa la spugna umida su una lastra appannata di pavonazzetto o di cipollino per iscoprirne le venature e gli screzii.

Nontivolio camminò col suo passo «alla levriera» sopra un pavimento a quadri bianchi e rossi orlato di bossolo non più massiccio di un festone; e sotto l’altissimo tacco il marmo veronese riluceva come porfido suntuoso.

Passammo di appartamento in appartamento, per gli anditi dei pergolati. Le pergole erano sostenute da vecchie colonne, da vecchi capitelli, da vecchie travi, ove la fronda pareva non anche racconsolarsi d’aver portato e d’aver lasciato cadere il fiore. V’era un ricordo di cosa allegra, come quando il ramo séguita a vacillare dopo che l’uccello s’è involato.

Entrammo in una sala di musica. Gli arazzi erano verdi, verdi i tappeti. I sonatori di Giorgione se n’erano già andati, con i loro strumenti e intavolature. Uno aveva dimenticato per terra un archetto, o qualcosa che ci parve nell’ombra un archetto, non forse fatto di crini ma di bei capelli tesi. Come la nostra malinconia origliò su la soglia, il silenzio le ripeté le ultime note d’una cascarda detta la Contarina.

Traversammo una fuga di camere attigue, costrutte di bossolo, di càrpino, di mortella, d’alloro, di caprifoglio. Qualcuno fuggiva dinanzi a noi, senza mostrarsi, di camera in camera. Avevamo l’aria d’inseguirlo, sebbene andassimo adagio. Inseguendolo, ci trovammo all’ingresso d’un corridoio basso, di fronda così fitta ch’era quasi buio come un cunicolo. Allora stesi la mano e dissi: «Non passiamo di qui». Credo che voi credeste che fosse una precauzione d’infermo malsicuro.

Il cielo sciroccale fumigava non senza qualche sprazzo di vampa, come quando il fuoco piglia e non piglia nella catasta di legna verdi. Volgemmo verso il pergolato mediano, simile a un portico di monastero; salimmo tre gradini umidi, ci trovammo dinanzi al cancello di ferro che su l’approdo dalla parte della laguna. Ci affacciammo al cancello. E la ruggine fulva tingeva i guanti delle vostre mani appoggiate, facendo parer più chiara la vostra biondezza. L’estremo ardore del tramonto s’era aperto un varco nella fumèa pigra e accendeva dinanzi a noi, su l’acqua immobile, la muraglia claustrale che cinge l’Isola dei Morti. Tutta la palude e le altre isole erano fumo e ceneraccio. Soltanto l’Isola funebre e il suo cipresseto e le ali dei gabbiani spersi splendevano in quel silenzio che pareva lor sostanza e spirito.

Lo splendore ravvicinava il cimitero, abbreviava il transito. La terra sepolcrale invadeva il giardino di delizia. Il mio compagno sepolto m’era prossimo, come quando mi chinai verso le sue scarne mani violacee, prima che il coperchio di piombo fosse sigillato dalla fiamma che già ruggiva e dardeggiava presso la cassa lunga come la sua spoglia.

Allora il cuore mi dolse così forte che, per aver sollievo, dissi il suo nome, parlai della sua anima, parlai delle sue ali e della mia promessa.

Discendendo dalle nuvole perigliose, io solevo condurlo nell’orto contareno. Il giardino gli pareva più bello in un’aria grigia, o sotto un cielo lavato dalla pioggia d’autunno. Preferiva un luogo segreto overa non so che pace dell’Estremo Oriente, quasi una cadenza della narrazione di Marco Polo.


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