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119. Arrivo sul campo. Cerco sùbito l’altare. È alzato in mezzo ai pioppi ingialliti, fasciato con le coperte di lana bruna in cui s’avvolge il sonno dei combattenti nella trincea. Talune sono così vecchie che mostrano i buchi. Ci si vede il sole a traverso.
I soldati si schierano dall’una e dall’altra banda, col fucile e con la baionetta inastata. Hanno un aspetto di vigore che cova l’impeto. Appartengono alla Brigata siciliana, alla Brigata di bronzo. Taluni sono foschi come i Saracini dell’imperator Federico. Il loro capo grida i comandi con una voce dura. Sembra un veterano eritreo o libico, che abbia lasciato appeso all’arcione lo staffile di cuoio d’ippopotamo.
Il Duca arriva, con quel suo aspetto grave e un po’ distante, ma semplice, tranquillo.
Comincia la messa officiata da un prete robusto come uno zappatore, che pronunzia le formule sacre con una bocca accesa sporgente da una barba fulva.
Il capo grida: «In ginocchio!»
Il cannone tuona, verso il monte di San Michele. Un velivolo nemico si mostra alla sommità dell’azzurro, tra le nuvolette degli scoppii. Quasi tutti gli occhi si sollevano al cielo lacero. Si vede il bianco ma non è il bianco della paura. Vi balena un sorriso selvaggio.
Il sacrificio della messa s’interrompe affinché il Cappellano parli. Egli sale sopra una bigoncia che domina l’altare fasciato di lana rozza. Con una facondia senza intoppi, egli parla del coraggio. Il coraggio l’ascolta, armato e taciturno.
Il cielo è d’una purità sublime, incurvato su l’Alpe che le prime nevi imbiancano. Un tepore lento si forma dalla preghiera, sopra le baionette nude e verticali. Il fogliame moribondo dei pioppi tremola di continuo, oro nell’oro. Il Carso è laggiù, laberinto di trincee e forteto di reticolati, quale lo conosco dall’alto. È certo che domani s’ingrosserà quel fiume caldo che vi si forma sotto il sasso.
Non odo più le parole dell’oratore che ha già la bocca piena di saliva. Odo il canto della terra, odo la pulsazione assidua dei cuori che pompano il sangue del sacrifizio; odo il silenzio di sotterra e il silenzio che sta di là dall’azzurro.
È una grande ora, la più grande da che abbiamo passato il confine e piantato la bandiera nel suolo redento. So che domani, a mezzogiorno, incomincerà lo sforzo, incomincerà la tremenda sinfonia, assai più vasta che quella dei giorni di luglio.
Volti di soldati in una specie di trasognamento, che sembrano già posati su l’erba funerea. L’anima si curva su di essi. Il cielo s’affoca d’amore. Veggo il mio volto presso quei volti, agguagliato a quella bellezza. Qualcuno si curva, mi riconosce, mi chiude gli occhi. La marea si ritira di sotto alla volta del mio capo. Due sollevano il mio corpo per coricarlo nella barella.
Perché penso a quella pietra che un giorno sollevai nella foresta opaca e lasciai ricadere sbigottito, avendovi di sotto scoperta una vita brulicante e fuggiasca?