Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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122. Un giovine capitano, alto, snello, adusto, si china verso di me e mi dice a bassa voce: «Perdoni, tenente». Poi mi mette le dita nel collo e afferra una vespa che stava per pungermi. Ha la vespa viva tra il pollice e l’indice. Me la mostra sorridendo. Sorrido al ricordo della vespa che ronzava sul balcone di mia madre e che mi punse il polso, al momento del commiato. Ferita di poeta! Vulnus hyblaeum.

Il crocidare fioco delle cornacchie su gli alberi d’oro accompagna la fine della messa di sangue. Ite, missa est. Il sacrificio è compiuto. I soldati si levano in piedi, e hanno un poco di terra molliccia ai ginocchi. Presentano le armi, mentre il Duca si muove, seguìto dai suoi ufficiali, per raggiungere il luogo dove aspetterà che tutte le compagnie passino in ordinanza davanti a lui vicario della Gloria.

Il sole monta al meriggio. Le ombre sono brevi. Nella gran luce i corpi umani hanno un che di sparente, un che di labile. Quella massa di carne mortale scorre, su la prateria, non men lieve che la fuga d’una nuvola. Il passo misurato risona, come una pesta sorda; ma sembra che, dal ginocchio in su, gli uomini sieno avviluppati di silenzio, d’un silenzio remoto come quello che s’incurva laggiù su l’Alpe bianca della prima neve.


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