Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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128. Ero intento alle solite cure atletiche dei muscoli, quando il migliore dei miei compagni di terra ha picchiato ai vetri della finestra bassa: il capitano dal bel capo di negro impallidito, il mio pilota di tempesta, quello del più arduo volo.

Forse viene a offrirmi la fine eroica. «Al quale io dissi: Benvenuto è il tuo nome. Rispose: Benvenuto sarò io questa volta per te.»

Mistero della sera, dell’arrivo inatteso, della voce che suona su la soglia, tra l’aria di fuori e l’ottusità di dentro. Ogni uomo è un messaggero. Bisogna aprirgli il pugno.

Il benvenuto ritorna, quando sono pronto. Al primo vederlo, gli trovo la qualità dei sogni. Mi porta il vento alpino che passa pel valico, nell’Altipiano dei Sette Comuni; mi reca l’odore della prateria soleggiata dove pascolano le vacche presso la loro ombra lunga, dove i fiori violetti del colchico si piegano verso la loro ombra lieve. Tutti i nastri delle vie legano la terra verde. Delle abetine non vedo se non le cime fitte come schiere e schiere e schiere di lance. Dell’Alpe non vedo se non i denti che stracciano le nuvole, le groppe che s’accavallano, le ombre disposte come le nervature nelle foglie palmate…

Il benvenuto mi parla, e non lo comprendo. Mi occupa l’orecchio il tono del motore. Sto sul mio seggiolino di prua. Porto il barografo


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