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131. Il tono vitale sembra aumentato anche nelle cose intorno. Il capo raso del benvenuto ha per fondo le imagini equestri del Gattamelata e del Colleoni. La Leda del Museo marciano è ghermita dal gran cigno dell’Eurota, non con piede palmato ma con artiglio d’aquila che travaglia la lunga coscia voluttuosa.
«Perché Leda tra i Condottieri e le Vittorie?» mi domanda il ghermitore di Verona, ne’ cui occhi forti ondeggia un’altra imagine.
«Perché è la madre dei Dioscuri, che stanotte verranno di nuovo a lavare i loro cavalli bianchi nel Timavo.»
Egli sorride. Ha i denti di smalto intatto. Sveglio in lui l’istinto della poesia. Certe volte, a grande altezza, quando tutto era divino intorno a noi, sopra di noi, e le nostre ali parevano ferme, rigate dalle ombre esili dei tiranti, egli mi chiedeva il taccuino e abbandonava le leve per scrivermi un suo pensiero lirico.
Siamo ora seduti tutt’e due sul banco. Si parla di apparecchi, di camerati, di capi, di fortuna, di sfortuna. Si guarda su la carta la distanza tra Campofòrmido diecimila chilogrammi di tritòlo.
Siamo tutt’e due sul banco, l’uno accanto all’altro. Ci sembra che i nostri destini si leghino, si annodino. Egli è giovane, io non sono più giovane. E tutt’e due martedì, prima di mezzogiorno, potremmo esser morti, essere un pugno di carniccio carbonizzato, qualche osso annerito, qualche cartilagine rattratta, un teschio spiaccicato con qualche dente d’oro luccicante nella poltiglia. O forse abbatteremo un velivolo nemico, il primo, e discenderemo nella gloria!
Quando glie lo dico, i suoi occhi luccicano tra le palpebre rilevate come quelle dei bronzi arcaici.
Si alza per andarsene. Ha i guanti troppo stretti. È ancor lontano dalla vera eleganza. Ma i denti bianchissimi gli brillano, come lassù, nel nembo montano, su la tempesta impietrita dell’Alpe, quando mi voltavo verso di lui dal mio seggiolino di prua per fargli un cenno risoluto.
Su la soglia, nella sera limpida, mentre la luna nuova brilla tra la fronda della ripa, mentre un ragazzo fischia sul tiemo d’un burchio ormeggiato, mentre là su la strada di Palma un cavallo nitrisce, mentre laggiù il Trecentocinque dell’Isola Morosina romba e rimbomba, egli riprende a parlare della sua amica bella e della furente ora veronese. Un Maggiore medico, dal treno della Croce Rossa, vedendolo passare, mentre l’infermiera fingeva di non conoscerlo e dissimulava l’ansietà, il Maggiore medico aveva detto: «Guardi che Capitano giovine! Sembra un ragazzo».
Il capitano soggiunge, con modestia incantevole: «M’ero fatta la barba».
Se ne va. Va a desinare, poi riparte per Campofòrmido. Lo accompagno fuori. Lo seguo con lo sguardo fino di là dal ponte. Non ho voglia di andare alla mensa, non ho voglia di ritrovarmi in quella sala fumosa, piena di chiacchiere; non ho voglia di riudire tra quel baccano l’ufficiale dell’Intendenza parlarmi del «cavallo di carica» e del «prelevamento» di una uniforme pel mio caporale.