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137. Vicino a me un soldato non canta ma di tratto in tratto, rapito nell’impeto delle riprese, manda qualche nota monca, come se masticasse. Lo guardo. Ha il boccone in bocca. Mangia il suo viatico. Sembra pan fresco, all’odore. Sùbito la mia fame si sveglia.
Senza peritarmi, gli domando un pezzo del suo pane. Egli si volge confuso.
«L’aije muccicate, ’gnore tenende» dice con un rammarico gentile, mostrandomi il segno dei denti nella crosta bruna.
Con una commozione profonda, come se udissi la voce medesima di mio fratello partitosi giovine dalla casa paterna e non più ritornato, riconosco l’accento del mio paese, l’idioma della terra d’Abruzzi.
Lo guardo. Non può avere più di vent’anni. Anch’egli ha i denti bianchissimi, nel suo sorriso d’innocenza, e gli occhi stralucenti come quelli degli spiritati che vidi roteare intorno al santuario di Casalbordino, dietro gli altissimi stendardi rapiti dal turbine del miracolo. «Evviva Maria!»
Gli levo il pane di mano, lo spezzo in due, e gli rendo la metà. Rimane attonito, con gli occhi bassi. Alla luce delle stelle scorgo le sue lunghe ciglia ricurve. Rattengo le parole del suo linguaggio, del nostro caro linguaggio, che mi salgono alle labbra. Mordo crosta e mollica, franco.
Ed è il miglior pane che io abbia mai mangiato, in verità, da che ho denti d’uomo.]