Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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143. [Non scrivo su la sabbia, scrivo su l’acqua. Ogni parola tracciata si dilegua, come nella rapidità d’una corrente scura. A traverso la punta dell’indice e del medio mi sembra di vedere la forma della sillaba che incido. È un attimo accompagnato da un luccicore come di fosforescenza. La sillaba si spegne, si cancella, si perde nella fluida notte.

Il pensiero sembra correre sopra un ponte che dietro di lui precipiti. L’arco poggiato alla riva è distrutto, sùbito crolla l’arco mediano. L’ansia raggiunge la riva opposta con uno sgomento di scampo, mentre il terzo arco cede e sparisce.

Scrivo come chi caluma l’àncora, e la gómena scorre sempre più rapida, e il mare sembra senza fondo, e la marra non giunge mai a mordere né la gómena a tesarsi.]

*

Un giorno mi venne il desiderio improvviso di riconoscere l’accento di quell’altra mia arte; e mi ricordai di un’opera da me scritta nel mio rifugio della Landa, tra la fine della primavera e il principio dell’estate, scritta con una penna e un’attenzione più aguzze che mai.

La voce di Desiderio Moriar mi risonò nel buio. «La notte non è onnipresente e perpetua? Se chiudo il pugno, sotto il pieno meriggio, ecco, faccio la notte nel cavo della mia mano

Il volto di Desiderio Moriar mi riapparì nel buio. «Egli fece la notte in sé, coprendosi la vista con le palme; e restò silenzioso

Allora pregai qualcuno, che stava al mio capezzale, di rileggermi quelle pagine obliate.

V’era, qua e , alcun tratto d’arte notturna. V’erano parole d’uno strano potere, che sembravano tracciate a occhi chiusi. Tra riga e riga, gli aspetti della vita assumevano il carattere delle apparizioni. «La nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto è più ricca quanto più se ne allontana attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti.» La vocazione della morte v’era espressa con modi musicali d’una novità che mi rapiva. Avevo dato al «pensiero dominante» uno stupendo viso di donna, «quell’antica e novella faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte».

Certe cadenze mi facevano d’improvviso balzare il cuore veloce e suscitavano dal fondo del mio occhio ferito grandi bagliori, come d’un incendio che ricominciasse.

Ed ero immobile sempre. Gli orizzonti si avanzavano come quattro barre, si chiudevano come uno steccato. La città vi rimaneva dentro, senza vista, senza respiro, esanime. La casa, piena di sollecitudini, di voci sommesse, di cure, di rumori segreti, di piccoli iddii nascosti, s’acquetava, si dileguava quasi, diveniva inesistente. Sole le quattro pareti della mia stanza esistevano; e intorno era il vuoto senza fine. Poi sole esistevano le quattro colonne del mio letto, che credevo di sentire nel buio come quattro aste d’una tenda quadrata nel deserto. Poi sole esistevano le mie ossa, solo esisteva il mio scheletro fasciato di carne. E nello scheletro era come una coagulazione subitanea della vita. La vita s’aggrumava, s’accagliava come il sangue che non scorre più. Era un orribile peso.

E ascoltavo la voce del lettore: «Tutto il mio essere aderì all’incognito che è il fondo della vita, per l’ombra accolta nel corpo, nel buio che occupa i nascondigli della carne, per l’oscurità delle viscere e dei precordii. Sentivo stillare verso me il dolore e la morte come le gocciole che gemono dalla parete d’una caverna tenebrosa. Una disperata poesia divenne la mia propria sostanza…».


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