Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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144. È dunque un dono funebre questo che io vi mando, o Chiaroviso?

È l’ultima opera d’arte pura ch’io abbia composta nella solitudine dell’Estremo Occidente. A considerarne la materia e il lavoro, par chiusa come una di quelle belle pigne penzolanti dal più alto ramo del pino piagato; la quale io m’imagino non possa esser còlta se non per infiggerla alla punta del tirso «che rende furibondo chi lo porta».

Dimentico dunque di averla già assomigliata a qualcosa di più dolce che i semi durissimi custoditi dalla scaglia verdebruna? Ma forse entrambe le similitudini le convengono; ché nulla è inconciliabile dinanzi alla sovranità del ritmo.

Mi misi a comporla attentissimamente, per farmi il polso allo stile di un’opera più vasta intitolata La primavera. Anche una volta, mi aiutava a scoprire gli aspetti dell’ignoto la mia più profonda sensualità. Questo racconto misterioso, anzi quasi direi mistico, è ricco d’elementi naturali come nessun altro. Il mistero v’è adombrato per una successione d’imagini dense, corporee, d’un rilievo palpabile, immuni da ogni indeterminatezza, espresse in una lingua che la lontananza sembra aver fatta più potente come il vino navigato.


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